La coscienza di Zeno
Letteratura italiana
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Benedetto umorismo
In una letteratura come quella italiana dove raramente fiorisce, La coscienza di Zeno è un capolavoro di umorismo. La scuola non sottolinea abbastanza questa componente, anche se nella nostra vita povera e precaria ne avremmo un estremo bisogno. Ma che volete, è decisamente più affine allo spirito di questi nostri tempi parlare di flusso di coscienza (errore, quello di Svevo è un semplice monologo interiore, sintatticamente regolare e ordinato), di tempo della storia e di altre raffinatezze narratologiche. Utili, utilissime, per carità, per la “comprensione del testo”, ma forse un ostacolo per il piacere della lettura e per ricavarne lezioni di vita e quindi un possesso per sempre, come dicevano i greci.
Già fa sorridere la prefazione, dove uno psicoterapeuta freudiano (o Freud in persona, visto che si chiama dottor S.?) afferma di pubblicare questo diario che ha tra le mani, scritto dal suo paziente come supporto alla cura, per vendicarsi della sua improvvisa sparizione. Si dice disposto a dividere con lui il ricavato delle vendite, a patto che si ripresenti alle sedute. Alla faccia della deontologia professionale. Ma c’è un altro fine, ancor più subdolo, in quella breve ma velenosa introduzione: demolire in premessa le parole di Zeno, mostrare come in quello che afferma convivano verità e bugie. Poche pagine e crolla tutto il castello costruito lungo l’arco dell’intero romanzo dall’ex paziente , mentre Zeno si trasforma in un “narratore inattendibile” . Mi direte: sei in contraddizione, ti aggrappi anche tu ad una formula critica di successo. E’ vero, ma, credetemi, questa è l’unica indispensabile per godersi fino in fondo l’umorismo sveviano.
E siamo subito al capitolo più famoso, quello in cui il protagonista rievoca gli innumerevoli tentativi fatti per smettere di fumare: delle buone intenzioni è lastricata la via che conduce all’Inferno, o , più prosaicamente, alla dipendenza perpetua dal fumo. E non basta al buon Cosini legare il suo lodevole proposito a date che gli paiono dotate come di una struttura magica, di un loro ritmo interno, di un loro potere palingenetico, come: nono giorno del nono mese del 1899, terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24. fino a quel primo gennaio del 1901, che sembra già di per sé garanzia di mutamento e di nuovo inizio. Forse per gli altri, ma non per il nostro fumatore compulsivo, che dietro la sua patologia nasconde una serie di complessi irrisolti (un’orchestra intera, come dice Trosi al povero Robertino).
E vogliamo parlare della leggera zoppìa di Zeno? Sapete com’è cominciata? Un giorno Tullio, un amico affetto da reumatismi, gli ha spiegato che l’atto del camminare mette in gioco la bellezza di 54 muscoli. Mai dire una cosa del genere ad un ipocondriaco: da allora il nostro eroe ha cominciato a riflettere sulla “macchina mostruosa “ del nostro organismo, sui movimenti che esegue ogni volta la gamba e questi, perdendo la loro naturalezza, si sono inceppati.
E che dire della reazione di Zeno a quanti cominciavano a sospettare di una sua qual follia, quando decide di andare dal medico per farsi certificare la sua sanità mentale? E' commovente pensare come, a distanza di un secolo e in tutt’altra temperie culturale, il protagonista della bellissima serie televisiva americana The big bang theory, Sheldon Cooper, faccia una cosa analoga e la rinfacci spesso a chi dubita del suo equilibrio mentale.
Imperdibili le vicende che porteranno Zeno a sposare Augusta. All’inizio tutte le sue attenzioni sono rivolte alla sorella di lei, Ada, tutto il suo odio verso Guido Speier, il rivale che gli sarà preferito. Un giorno entra in casa Malfenti mentre è in corso una seduta spiritica organizzata proprio dal futuro cognato. Decide di anticiparlo e di fare la dichiarazione alla donna oggetto del suo desiderio ma, complice l’oscurità, non si accorge di averla fatta ad Augusta, la meno…intrigante delle sorelle (mai dire mai). Accortosi dell’equivoco, comincia ad interferire sull’esperienza medianica , solleva il tavolino in modo che si formi il nome di Guido, ma il presunto trapassato si accorge dell’inganno ed espone il reo confesso alla pubblica gogna. Un episodio rocambolesco, in cui l’umorismo sembra sconfinare nel comico e nel grottesco. E non a caso il povero Guido, divenuto marito di Ada, rischierà di essere buttato giù da un muretto dal cognato. E al suo funerale Zeno non sarà presente, avendo seguito il feretro di un altro defunto…
Riavvolgiamo il nastro e torniamo ad un'altra pagina memorabile: Zeno ha deciso che è venuta l’ora di sposarsi e, in una stessa serata, si dichiara alle tre sorelle Malfenti in età da marito. Respinto dalle prime due, ripiegherà su Augusta, come la famiglia della prescelta aveva lucidamente programmato e la stessa occhialuta fanciulla aveva pazientemente aspettato. E, paradosso per paradosso, Augusta si rivelerà la moglie ideale per lui, nonostante l’ironia con la quale il consorte la descriverà, in uno dei ritratti più acuti e corrosivi della nostra letteratura, come una malata dell’ordine e delle regole, il suo esatto opposto, come la A della Z. A dire il vero, c’è una quarta Malfenti, Anna, ma è troppo piccola perché le attenzioni dell’aspirante sposo si rivolgano anche a lei. In compenso la ragazzina, di fronte alle continue gag, alle battute di spirito stravaganti, agli aneddoti improbabili del futuro genero, un giorno non riuscirà a frenarsi e griderà pubblicamente :”Ma è pazzo, non è vero che è pazzo?”. Un po’ come nella favola del re nudo di Hans Christian Andersen.
Impagabile l’andirivieni di Zeno tra l’amante e la moglie, il suo trottare affannato da un capo all’altro di Trieste, i suoi ritorni a casa, sempre più calato nella parte per lui assai improbabile di solido patriarca e di marito affidabile, quasi che le continue scappatelle siano un alimento per il suo matrimonio e trovino in questo una loro giustificazione.
Tantissimi ancora sarebbero gli episodi ascrivibili al geniale umorismo sveviano: conviene andare o ritornare al grande capolavoro per apprezzarli tutti fino in fondo.
Con il suo carico di difetti che non saprà mai correggere, forse perché fanno parte di un vizio di base della natura umana, come rivelano le ultime pagine, con questi suoi equilibri problematici, i suoi atti mancati, i falsi pretesti, i propositi mai realizzati, la difficile navigazione tra affetti e legami apparentemente inconciliabili, Zeno ci strappa un sorriso benevolo, ma anche amaro, perché in lui ci riconosciamo. E l’umorismo, come insegna Pirandello, è figlio della riflessione.
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“Cecità che allora mi pareva chiaroveggenza”
Chi più del narratore della Coscienza di Zeno è inattendibile? Probabilmente nessuno, perché questo narratore è il vero emblema dell’inattendibilità; di lui non ci si può fidare. L’autobiografia, contenuta nel memoriale pubblicato per ripicca dal Dottor S., come si comprende dalla Prefazione dell’opera, è tutta un gigantesco tentativo di autogiustificazione da parte di Zeno che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa nei rapporti con il padre, con la moglie Augusta, con l’amante Carla, con l’amico/rivale/socio d’affari Guido. In realtà, in ogni pagina traspaiono i suoi impulsi reali che sono regolarmente ostili e aggressivi. Non sono però da intendersi come menzogne; sono piuttosto degli autoinganni determinati da processi profondi e inconsapevoli, con i quali Zeno cerca di tacitare i sensi di colpa che tormentano il suo inconscio. Per tutto il romanzo ogni gesto e ogni affermazione del protagonista rivela in trasparenza un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse o addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. La realtà oggettiva dei fatti, che si può solo intravedere dietro le mistificazioni dello Zeno narratore e personaggio, si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni da lui adottate. Per cui Zeno appare avvolto da un alone di ironia “oggettiva”, alla quale però si deve aggiungere il distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda. La sua “malattia” si contrappone alla cosiddetta “normalità” degli altri, i quali vivono nella loro pretesa di “sanità”, soddisfatti e incrollabili nelle loro certezze. Grazie alla sua “malattia” Zeno è inquieto ma disponibile alle trasformazioni; sperimenta le più varie forme dell’esistenza ed esplora l’affascinante originalità. I “sani”, invece, sono cristallizzati in una forma rigida, immutabile.
L’altra assoluta novità che Italo Svevo propone nel suo capolavoro è l’impianto narrativo. L’autore abbandona il modulo ottocentesco, ancora di matrice naturalistica, e propone la particolare forma a episodi autonomi, ognuno dei quali costruisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede. Non vengono perciò presentati gli eventi nella loro successione cronologica lineare; si adotta il cosiddetto «tempo misto». La ricostruzione del passato operata da Zeno si raggruppa intorno ad alcuni temi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo. Eventi contemporanei possono essere distribuiti in più capitoli successivi, poiché si riferiscono a nuclei tematici diversi e, inversamente, singoli capitoli, dedicati ad un particolare tema, possono abbracciare ampi segmenti della vita di Zeno. Si continua ad andare avanti e indietro, seguendo la memoria del protagonista. I celeberrimi temi trattati sono: il vizio del fumo e i vani sforzi per liberarsene (17 pagine); la morte del padre (22); la storia buffa del proprio matrimonio (68); il rapporto con la moglie Augusta e con la giovane amante Carla (84); la storia dell’associazione commerciale con il cognato Guido Speier (93). In ultima posizione pone un capitolo dedicato alla psicoanalisi, nel quale Zeno sfoga il proprio livore contro il Dottor S. e racconta la propria presunta guarigione, giustificata dal fatto che ormai è divenuto l’uomo più affidabile della famiglia Malfenti e un uomo di successo in ambito commerciale (25 pagine). Come si può notare, escludendo l’ultimo capitolo che è una sorta di diario personale di Zeno in cui dichiara le motivazioni che l’hanno portato ad abbandonare la psicoanalisi, i capitoli divengono sempre più lunghi ed è evidente una certa sproporzione nella distribuzione del materiale.
In ognuno di questi capitoli ci sono frasi che colpiscono e inducono ragionamenti di vario grado. La mia personale selezione è la seguente. Primo capitolo: «Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima». Tra l’altro mi sembra che nell’ultimo brano di Marco Mengoni si faccia, a distanza di cento anni, ancora riferimento a quest’aspetto sveviano («Fosse l'ultima notte che abbiamo, sai / Io con tutte le altre la cambierei»).
Secondo capitolo: «Ricordo che cercai di mettere nelle mie mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore. Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l’amavo tanto?». Sarà anche inattendibile, ma in questo passaggio Zeno è commovente e rappresenta tutti coloro che si trovano al capezzale di un caro.
Terzo capitolo: «Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza». Quante volte ci capita di voltarci indietro e di sorride della nostra versione di noi stessi di qualche anno addietro?
Quarto capitolo: «Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola: è più importante di una parola perché non v’è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna». La potenza di uno sguardo sa andare oltre a tante parole, sa essere più efficace e veritiero.
Quinto capitolo: «Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi. È tutt’altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall’averla tradita in piena coscienza». Giustificazione ineccepibile, da Zeno Cosini.
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Loop (quasi) infinito
Considerato il romanzo che ha introdotto il tema della psico-analisi nella letteratura italiana, il mio approccio iniziale a “La coscienza di Zeno” è stato oltremodo positivo: nelle prime pagine il protagonista ci si presenta subito con forza, nel capitolo incentrato sul suo vizio del fumo che lascia già immaginare le controversie della sua psiche sulla quale, in fondo, il romanzo è incentrato. In certi casi m'ha strappato anche qualche risata, e pur essendo evidente l’inettitudine di Zeno si riesce a entrare in sintonia con lui e se ne seguono le vicende con vivo interesse.
A un certo punto però, succede qualcosa.
Le fisime di Zeno cominciano a pervadere il romanzo, che si trasforma in un rimuginio ininterrotto su quelle fisime stesse: un po’ alla maniera del Moscarda pirandelliano… ma con la differenza che stiamo parlando d’un romanzo lungo il triplo. Sebbene si percepisca bene quanto i conflitti di coscienza irrisolvibili di Zeno siano al centro della trattazione di Svevo, questi finiscono per sfiancare un lettore che, partito coi migliori auspici, si ritrova ad affrontare una lettura che diventa asfissiante, ripetitiva; in certi tratti davvero noiosa. In mezzo alla moltitudine dei suoi pensieri ricorrenti Zeno finisce, paradossalmente, con lo sfumare. È forse per questo che il romanzo si chiama “La coscienza di Zeno” e non semplicemente: “Zeno”, ma a quale prezzo Svevo ha veicolato il suo messaggio? Perché non v'è senz'altro dubbio che il messaggio sia arrivato, che il modo d'essere del protagonista sia venuto fuori... ma era davvero necessario indugiare così tanto sulle stesse dinamiche e sugli stessi voli pindarici della sua coscienza, per poi lasciare un così misero spazio alla rivalsa dell'inetto? Occorreva davvero portare alla nostra attenzione cosi tante volte il conflitto che coglie Zeno nella sua relazione extraconiugale? nell'amore per sua moglie e nel suo non-amore (forse) per la sorella di lei? nel suo rapporto col cognato?
Dopo "Uno, nessuno e centomila", in cui pure Moscarda rimugina fino allo sfinimento sugli stessi conflitti, mi sono detto che forse gli autori italiani che si soffermano su temi psicologici temano che i loro lettori siano un po' scemi e non possano afferrare un concetto se non ripetuto allo stremo. Diamine, cose che neanche il Raskol’nikov dostoevskiano, e lui aveva commesso un omicidio!
Insomma, io non nego l'importanza di questo romanzo e anzi ne ho ammirato l'inizio, da cui avevo tratto le migliori aspettative. Ma poi Svevo mi ha stordito, facendomi perdere interesse anche per quanto di buono (ed è tanto) ha espresso, ma che bisogna dissotterrare da un milione di parole e concetti che, troppo spesso, si ripetono.
Peccato.
“Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità. Tutt'altro che la verità anzi: rivela dell'individuo specialmente la storia passata e dimenticata e non la sua attuale volontà; getta capricciosamente alla luce anche tutte le ideuccie con le quali in epoca più o meno recente ci si baloccò e che si è dimenticate; trascura le cancellature e leggee tutto quello ch’è ancora percettibile nel nostro cuore. E si sa che non v’è modo di cancellarvi niente tanto radicalmente, come si fa di un giro errato su di una cambiale. Tutta la nostra storia vi è sempre leggibile e il vino la grida, trascurando quello che poi la vita vi aggiunse.”
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Io sono Zeno
Penso che tutti noi siamo un po' Zeno dentro, c'è chi più e c'è chi meno. Abbiamo debolezze, dipendenze da vizi, desiderio di rincuorare la nostra coscienza modificando magari la realtà (che è sempre modificata dal nostro filtro e non corrisponde mai a quella oggettiva), siamo gelosi, competitivi, indifferenti ed egoisti, abbiamo bisogno d'amore e di considerazione, tradiamo a volte la fiducia dei nostri cari. Ma perché guardare solo i lati negativi?! Zeno in fondo è stato anche il migliore uomo della casa Malfenti, un ottimo marito, nonostante tutto e un buon amico per Guido.
Ho trovato Zeno un uomo di potentissime capacità, ma con una bassa autostima, magari acquisita nella sua infanzia con un padre non molto esemplare. E questa mancanza di autostima porta al suo disagio psicologico e necessità sempre al suo fianco di una figura più sana e forte, che possa rappresentare per lui un esempio e possa quindi migliorare... Questa è un'altra lezione che si impara: nessuno cambia per mano di terze persone, ma solo per mano propria, infatti, cambia prospettiva solo in seguito alle sue convinzioni ed esperienze. Viene colpito dalla guerra e capisce la futilità dei mali quotidiani di fronte al male più grande che per lui è la vita stessa, malattia che porta sempre alla morte.
Mi è piaciuto molto anche il personaggio di Carla. Fanciulla fragile e onesta, che desiderava solo un po' d'amore e una vita tranquilla, e fortunatamente l'ha avuta, e questo per merito del suo mite carattere, deciso e fermo e soprattutto onesto.
Il messaggio finale che ho colto è che solo verso la fine della vita capisci veramente cosa essa sia e spesso si vive da “sani malati”. Inoltre, dov'è la linea che separa la realtà dal sogno, la verità dalla menzogna, il bene dal male? Queste categorie sono così vicine tra loro che si fatica a distinguerle e non di rado capita di confonderle. Un grande e potente romanzo italiano che mi rimarrà nel cuore.
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Flusso di coscienza
“ La malattia e’ una convinzione ed io nacqui con quella convinzione “.
Il ricco commerciante e borghese Zeno Cosini vive una naturale condizione di malattia, in primis una idea nella testa, giorni abitati da fantasmi, un presente apatico ed un futuro che pare condanna.
Impossibilitato ad uscire dal proprio stato di sofferenza, tra inettitudine e malattia, viene invitato dal suo psicanalista, il dott. S. ( nel romanzo riferimento a Freud, allo stesso Svevo ?) a scrivere le proprie memorie in un diario privo di sequenzialita’ temporale, indispensabile ad un approccio terapeutico ed a stabilire le cause del proprio malessere.
Vi è sempre un’ ultima sigaretta da fumare che acquisisce un gusto più intenso proprio perché l’ ultima, il conflittuale rapporto con il padre alla cui morte insorge la disperazione per se’ ed il proprio avvenire, un uomo per cui era sempre vissuto e che prima di andarsene lo punirà con un gesto estremo, la ricerca di una moglie-madre, una seconda madre per un matrimonio curativo, e potere affermare di essere avviato alla salute ed alla felicità, al riparo da un amore negato, una amante con cui assaporare il vento della passione, fallita la cura matrimoniale, la presenza di figure maschili delle quali si è circondato da sempre.
Nella sua vita ha assaporato momenti in cui credere di essere avviato alla salute ed alla felicità, colto da un’ altra malattia da cui non doveva più guarire, la paura di invecchiare e di morire. Zeno non ha desiderato la morte, ma la malattia, pensiero dominante, sogno e spavento, pretesto ed impedimento al compimento dei propri desideri.
Ed ecco una nuova consapevolezza, la sofferenza come sola condizione di normalità, uno stato che lo ha indotto a desiderare, ricercare, cambiare, al contrario della sana “ normalità “, condanna allo status quo e ad una passiva ovvieta’.
L’ abbandono dello stato di malattia, una serie di sintomi psicosomatici di dubbia origine e manifestazione, all’ apparenza incurabili, condanna Zeno ad una inevitabile solitudine alla quale il dottor S., studiandone l’ animo, vi ha aggiunto altre patologie.
Nel presente il protagonista scopre di essere finalmente “ guarito “, nonostante sei mesi di inutili cure, e la ripresa della propria attività commerciale, contravvenendo ogni ipotesi, unica panacea.
Finora ha introiettato e proiettato il suo stato, classificato come nevrosi di origine edipica, in una vita costruita su vani tentativi di cambiamento.
Forse che lui, alla fine, sia l’ unico soggetto “ sano “ in un mondo malato? E chi sono gli altri, specchio di se’, persone da amare e da disprezzare, origine del proprio male, vittime della sua scaltrezza?
In realtà è la vita a somigliare ad uno stato di malattia, giorni che procedono per crisi e lisi, miglioramenti e peggioramenti, una vita da sempre mortale e che non sopporta cure.
Di sicuro, e qui abbandoniamo la sfera privata, l’ uomo, e la guerra ne è causa e testimonianza, sta distruggendo il mondo e la propria specie, l’ annientamento come esito infausto ed azzeramento.
L’ alternanza di conscio ed inconscio, una dettagliata e maniacale descrizione e dissertazione degli eventi cardine di giovinezza ed età adulta, sommerso dall’ atroce dubbio sulla reale consistenza del proprio essere malato, ci consegnano un’ opera singolare per temi e contenuti ed inserita in un contesto letterario mitteleuropeo.
L’ uso di una forma non particolarmente curata, di una lingua italiana che non spicca per limpidezza, e questo traspare nitidamente nelle lunghe e dettagliate descrizioni di situazioni e personaggi, ma vanno rammentate le origini multietniche culturali e linguistiche dell’ autore e la sua città di origine ( Trieste ), da’ voce per contro ad un romanzo che si addentra nella complessità dell’ animo umano.
Una guerra interiore è in atto, bagno prolungato tra le singolari teorie della neonata psicanalisi che l’ autore in parte stimerà ed in parte rigetterà, una tensione insita nel destino umano, quella miscela circolare tra passato, presente e futuro, “ Storia “ privata e pubblica.
Ed allora Svevo denuncia un mondo razionale e borghese in piena crisi identitaria, traccia una critica sociale a partire dalla analisi della psiche, estesa e fallace, utilizza una ironia sottile, da’ voce ad un antieroe che si domanda: quale il confine tra malattia e sanità, società giusta ed umanità, coscienza ed incoscienza, dove sta il male e dove ricercarlo, quale la soluzione e la cura?
Probabilmente nell’ acquisizione di una sottile ironia ed in uno sguardo più consapevole sul mondo, nell’ accettazione di se’ e della imprevedibilità della vita, in una pseudoguarigione che diviene convivenza “ sana “ con lo stato di malattia o presunto tale, una inettitudine che preserva e conserva dalla vera alienazione presente e futura….
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L'ultima sigaretta.
Il resoconto dell'esistenza altalenante di un uomo della ricca borghesia triestina dei primi del Novecento.
Potrebbe essere il titolo che sommariamente descrive una vita 'divorata' da un conflitto interiore sempre acceso che porta il protagonista al perenne andamento fluttuante e contraddittorio tra salute e malattia, gioia e tristezza, coscienza e inganno, vocazione e inettitudine.
'La coscienza di Zeno' è uno dei più grandi, forse il più grande romanzo della letteratura italiana del Novecento, sicuramente uno spaccato di psicanalisi profonda che invita al ragionamento su punti focali riguardanti l'esistenza di ognuno di noi, sotto tutte le sfaccettature, nonché sul destino e sulla voglia di vivere.
Zeno è il protagonista e ci racconta la vita in prima persona, come parlasse ad un interlocutore invisibile, assai paziente e che ascolta senza giudicare.
In realtà nelle prime pagine Zeno confessa chiaramente il suo forte bisogno di narrare alcuni periodi dell'esistenza, i più salienti e per lui significativi, dopo l'abbandono della terapia di psicoanalisi presso uno specialista cui si era rivolto in passato per tentare di smettere di fumare (o almeno quella era la banale scusa), pertanto quel suo lento narrare pare automaticamente assumere i connotati di un vero e proprio sfogo catartico, tra l'altro con un inconscio e velato ma utilissimo invito alla meditazione.
Anche se quest'opera è scritta con un linguaggio ormai desueto e non certo con terminologie, modi di dire e punteggiatura tipica contemporanea, una volta entrati nel meccanismo e nella vicenda risulta facile appassionarsi al procedere – talvolta a tentoni - del miope (in senso di miserabile e arido) nonché quasi imbarazzante protagonista, e in un batter d'occhio ci si ritroverà nelle ultime pagine, a trarre profonde riflessioni sul finale di Svevo, il quale magistralmente allude (si pensi all'epoca in cui l'autore scrive ovvero immediatamente dopo la fine della Prima guerra mondiale) ad una salvifica catastrofe non naturale portatrice di un nuovo e più salutare equilibrio sulla Terra.
“La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.”
E come periodo ultimo, giusto prima della parola 'fine':
“Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un pò più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
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Che fatica
Non so se ho fatto più fatica io a leggere questo libro, o Italo Svevo a scriverlo. Sta di fatto, che forse complice il caldo l'ho iniziato con grandi aspettative, poi mi sono scoraggiata. In mezzo ci ho letto alte cose più leggere. L'ho ripreso e via così di seguito. Trovo che questo romanzo sia un testo del suo tempo. Credo che i suoi quasi cento anni se li porti tutti. In questo nulla di male, ma per me è risultato abbastanza faticoso da portare a termine.
L'espediente narrativo scelto da Svevo è quello di far scrivere un diario al suo protagonista. Zeno Cosini su invito del suo psicanalista ci racconta la sua vita. Una vita che probabilmente è la metafora dell'incertezza e delle difficoltà che vive tutta la sua epoca. Zeno va dal terapeuta per smettere di fumare. Ma in realtà non vuole smettere. Le sue giustificazioni per fumarsi "l'ultima" sigaretta sono infinite. Così come infinite sono le giustificazioni a tutte le scorrettezze e le bassezze che compie nella sua vita. Sposa una di quattro sorelle, solo perchè è l'unica che gli concede la sua mano, anche se era la prima che aveva scartato. Si invaghisce dell'idea di avere un'amante e poi ne ha più dolori che soddisfazioni. Pregusta l'idea di diventare un grande uomo d'affari e poi si accorge che anche per quello ci vuole impegno. In definitiva un uomo triste, probabilmente depresso, ma non tutte le bassezze possono essere giustificate da una malattia dell'anima.
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L'utopia della salute
La coscienza di Zeno è il romanzo più rappresentativo di Italo Svevo. Pubblicato nel 1923 in una deludente indifferenza generale, nonostante l’appoggio oltralpe di importanti personalità come James Joyce, esso giunse al successo solo tardivamente.
Il romanzo prende le mosse da una finzione letteraria: nella prefazione parla il dottor S., uno psicanalista che, per vendicarsi dell’interruzione della cura da parte del suo paziente Zeno Cosini, decide di pubblicarne le memorie che lui stesso l’aveva invitato a scrivere. Secondo quanto scrive il dottore, tali memorie sono infarcite di verità e bugie, il che immediatamente introduce un fondo di ambiguità che costituirà la cifra dell’intero romanzo: da un lato, ciò che ci apprestiamo a leggere è stato scritto da un narratore presentato come inattendibile; dall’altro, non si sa quanto sia lecito dar credito a un dottore dal comportamento così poco professionale. A minare ulteriormente la credibilità del narratore, si aggiunge il doppio filtro del mezzo di comunicazione: in primo luogo la scrittura, che presuppone un ordinamento razionale da parte dell’autore; in secondo luogo, la scrittura non per sé stessi ma per un destinatario, che induce lo scrittore a presentare tutto a proprio favore.
“La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione.”
Zeno Cosini ripercorre nelle sue memorie la sua vita, non procedendo tuttavia per ordine cronologico, ma secondo un ordine apparentemente casuale, dettato da semplici criteri analogici e liberamente associativi. Egli darà quindi largo spazio ad episodi particolarmente significativi, nei quali si manifesta la sua malattia: l’inettitudine. Fin dall’inizio, infatti, Zeno si ritiene malato, come ben esemplificato dall’incapacità di smettere di fumare, dal difficile rapporto fatto di silenzi col padre. Il culmine è raggiunto nella narrazione della storia del suo matrimonio: rifiutato dalla sua amata Ada e da una delle sue sorelle (Alberta), egli è indotto a sposare la meno gradita delle sorelle, Augusta, per non rimanere solo. Col tempo egli si lega ad Augusta di un semplice e tenero affetto, mai sfiorato tuttavia dall’amore passionale che lo porta alle sue avventure extraconiugali, in particolare quella con la giovane Carla. La contrapposizione tra Augusta e queste passioni riflette nella mente di Zeno quella tra salute e malattia: egli è malato ed è incapace di rinunciare all’irrazionalità pur nei suoi sensi di colpa verso la moglie, per lui vera e propria personificazione della salute: “Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato. Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.”.
Nel frattempo, Zeno mette in piedi un’attività commerciale insieme al cognato Guido, marito di Ada, celando il suo sentimento di rivalsa con un’opera di autoconvincimento di bontà. Guido ci è presentato come un inetto, incapace di gestire il suo patrimonio e, per di più, impegnato a tradire la moglie con la segretaria Carmen, suscitando lo sdegno di Zeno. E’ in questo capitolo che giunge al culmine l’ironia, meccanismo alla base dell’intera narrazione autobiografica di quest’ultimo: egli infatti tende a presentare – impossibile definire quanto volontariamente – ogni cosa a proprio favore, mascherando al lettore e anche alla sua stessa mente la realtà con l’ironia. Quando, alla morte di Guido, Zeno non arriva in tempo al funerale perché intento a salvarne il patrimonio, suscitando le accuse di Ada, ormai vecchia e malata, lo scacco della verità è servito: ognuno dei protagonisti è incapace di discernere verità e irrealtà, cosicché la verità pura si presenta come un’utopia, resa tale dal relativismo che contraddistingue la condizione umana. Allo stesso modo, un’utopia appare quindi anche la salute perfetta.
“Tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un'estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch'esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo piú semplicemente, ma è fatta cosí, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca.”
E’ a questo punto che Zeno supera gli altri due precedenti inetti sveviani, Alfonso Nitti di Una vita ed Emilio Brentani di Senilità: egli ha maturato l’idea che per l’uomo la salute non è altro che la presa di coscienza e l’accettazione della propria malattia. Il rapporto iniziale tra sanità e malattia è completamente ribaltato, dunque lui è sano perché consapevole di esser malato, mentre gli altri sono malati perché si credono sani: “Non è per confronto ch'io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e che era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere.”.
Giunto a tale convinzione, Zeno decide di sospendere la cura psicanalitica presso il dottor S., fortemente criticato per il suo tentativo di curare la condizione umana e dietro la cui figura si potrebbe nascondere il padre della nascente psicanalisi Sigmund Freud (ma vi sono anche altre proposte di identificazione). Sospesa la cura, Zeno decide di spedire al dottore le sue memorie con l’aggiunta di un’ultima parte in cui, oltre a esporgli le sue idee sulla psicanalisi, afferma di esser guarito avendo compreso che la vita umana è inquinata alla radice e che l’occhialuto uomo potrà raggiungere la salute solo in uno scenario apocalittico magistralmente e acutamente delineato, al culmine della malattia: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie .”
Inettitudine e psicanalisi
Lettura accantonata per troppi anni, dopo che – essendo appena entrato nella bella stagione dei quarant'anni - mi aveva irritato, nella lettura del romanzo precedente di Svevo, vedere attribuita ad un Emilio Brentano, neppure quarantenne, una condizione di “Senilità” ritenendo (allora come oggi) che per quel personaggio si trattasse di inettitudine, mancanza di volontà, incapacità di cogliere la realtà dei rapporti umani. Insomma, una questione personale tra me e Italo Svevo, che mi aveva fatto desistere da altre letture dello scrittore.
Soltanto ora, entrato nella senilità reale, ho preso in mano la sua opera più significativa.
Se “La coscienza di Zeno” non è il primo “romanzo di analisi” di Svevo, poiché si lega per molti aspetti ai precedenti “Una vita” e “Senilità”, divengono più nette nella sua impostazione narrativa le caratteristiche che ne fanno un modello di tale filone letterario.
Viene superata la sequenza cronologica, con un’articolazione tematica nelle quattro parti: il fumo; la morte del padre; la storia del matrimonio; l’associazione commerciale con il marito della donna che avrebbe voluto sposare e la conclusione dedicata alla psicanalisi.
La narrazione è in prima persona ed il soggetto narrante, che rimane pressoché avulso dal contesto storico e ambientale, si concentra sul proprio malessere esistenziale.
Un malessere che si manifesta nella sua inettitudine (“non so fare altro che sognare o strimpellare un violino per cui non ho alcuna attitudine”), nell'incapacità di affrontare e vincere le sfide della vita, condizione che ne fa un perdente o una persona che subisce le decisioni di altri nei momenti cruciali: il fumo è vissuto come malattia contro cui è inutile combattere; la sua non affidabilità nell'attività commerciale viene risolta dal padre mettendolo sotto tutela; l’ultimo gesto del padre morente, vissuto come uno schiaffo, determina un senso di colpa che non genera alcuna reazione positiva; arriva al matrimonio con Augusta, quella delle sorelle Malfenti che aveva scartato appena conosciuta per lo scarso fascino, dopo essere stato respinto dalle altre due sorelle in età da marito; dall'amante viene lasciato proprio quando, quella che aveva vissuto come un’avventura insignificante, sembra coinvolgerlo passionalmente.
Niente sembra generare in lui reali slanci emotivi: né verso la moglie, né verso l’amante, né nel rapporto con i figli, né per l’inizio della grande guerra.
Vivendo la sua inettitudine come una malattia si affida alla psicanalisi, che nei primi anni del secolo scorso era agli inizi e costituiva oggetto di curiosità scientifica. Il rapporto con lo psicanalista è la finzione letteraria che dà lo spunto al romanzo, presentato come una confessione scritta su richiesta del medico terapeuta. Nello stesso tempo è anche oggetto di una valutazione sarcastica nel capitolo finale, il più interessante e vivace, in cui parla della psicanalisi come di una “ciarlataneria”. Giunto ad una reale maturità constaterà che non la psicanalisi, ma il commercio l’avevano guarito. A quel punto, rovesciando la convinzione che lo aveva portato ad affidarsi alla psicanalisi, afferma che non esistono persone sane e malate, esistono persone persuase di essere malate e persone convinte dalla massa e dalla società a considerarsi sane.
Lo stile è il punto a mio avviso più debole del romanzo, con un’esposizione monocorde, senza slanci narrativi né emotivi. Certamente tale esposizione può essere attribuita alle caratteristiche del personaggio narrante; è però difficile evitare un confronto, pur con i rischi di questi paragoni, con lo stile scintillante, ironico di un altro romanzo di analisi “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, che ugualmente ha un inetto come personaggio centrale. In tale confronto il divario stilistico appare evidente.
Solo nel capitolo finale lo stile si vivacizza sino alla sconcertante conclusione che sembra prefigurare –nel 1915 !- un’umanità distrutta da un’esplosione nucleare.
Indicazioni utili
La salute sta nella consapevolezza della malattia
“La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e,se mancano, s'affrettano di nascere. Presto la preda basta appena e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, venne ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano.[...] Perché non muoiono e non vivono tacendo?. […] L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore”. Stiamo parlando della più antica legge che ha retto la terra dalla comparsa dei primi microrganismi viventi: la legge del più forte, la legge della sopravvivenza. Per millenni si è riuscito a creare sotto l'egida di questo paradigma una sorta di armonia, dovuta al fatto che gli esseri viventi per evitare di finire nella classe dei deboli destinati alla soppressione siano “naturalmente” progrediti con l'evoluzione del proprio organismo. Tale equilibrio planetario è rimasto intatto finché non ha fatto la sua comparsa un bipede originario dalle scimmie, furbo, maligno ed estremamente tracotante. Costui, mediante l' ingegno, è riuscito a prendere il potere stravolgendo tuttavia il sistema precedente. Con l'andare avanti di questa usurpazione che ha definito progresso, bramando di poter prevaricare sulla natura stessa, l'uomo ha cominciato a inventare terribili ordigni, degli orripilanti veleni i quali ha chiamato farmaci. Così l'essere umano ha creduto di poter supplire ai mali che lo dilaniavano, per aver soppresso l'ordine primordiale. Ma tali mali che furono chiamati malattie sono rimasti e sempre rimarranno finché l'umanità non si renderà conto come “la vita è sempre mortale, non sopporta cure”. Insomma come l'unica via per la salvezza, per la salute è la consapevolezza della malattia. Questa la grande conclusione a cui arrivò nel suo La coscienza di Zeno (1923) un piccolo scrittore triestino che lavorava in una impresa commerciale. Si chiamava Aron Hector Schmitz ma noi oggi lo conosciamo meglio come Italo Svevo (1867-1928).
Zeno Cosini è un vero e proprio nomen omen. Infatti queste due brevi parole ci introducono già il personaggio a cui esse si riferiscono. Cambiando la n di Zeno in r otteniamo zero, ovvero la nullità, mentre Cosini rappresenta la mediocrità e la piccolezza.
Infatti Zeno è un uomo comune che conduce una vita comune in una Trieste Belle Epoque. Non ha bisogno di lavorare duro perché è nato benestante e perché ha l'astuto signor Olivi ad amministrare il “suo” patrimonio.
E' sempre assorto e perennemente indeciso. Ogni qualvolta vuole intraprendere una qualche azione rimpiange il suo contrario, finendo per non combinare nulla. Ciò avviene nella scelta dell'università, dove fa continuamente la spola fra le facoltà di chimica e giurisprudenza,e anche nella scelta della moglie: di 4 sorelle finisce per chiedere la mano di 3, sposandosi infine con la più bruttina e più virtuosa, Augusta. Nonostante ciò per colmare il vuoto e la noia della sua esistenza decide di avere una relazione con la dolce Carla però anche qui le indecisioni e le elucubrazioni mentali sono le predominanti. Quando è con Carla pensa ed ama follemente Augusta mentre quando è con Augusta pensa ed ama follemente Carla. Inoltre bisogna aggiungere i suoi continui propositi che si rivelano essere giustificazioni dei suoi vizi, in primis l'assuefazione alle sigarette. E infine non si deve dimenticare la sua fissa per le malattie. Si sente sempre pieno di dolori immaginari e perciò ripiange chi ha dolori concreti e si imbottisce dei più variegati farmaci. Cosicché per far cessare le sue fitte e i suoi formicolii si affida alla neonata psico-analisi, nella persona del Dottor S. il quale lo invita a iniziare un diario dove ripercorrere il suo passato. Tuttavia il caro Zeno per l'ennesima volta non porta a termine tale compito ma questa volta perchè fa una scoperta incredibile... Ma il Dottor S. non molla e per convincerlo a tornare in cura da lui fa pubblicare addirittura il suo diario, rendendo nota a tutti la sua storia.
La coscienza di Zeno segna un passo fondamentale nella letteratura italiana ( ed europea) del Novecento in quanto supera definitivamente la narrativa ottocentesca e l'esperienza verista aprendo la strada alla letteratura d'avanguardia (che avrà come promotori anche Proust e Joyce, strenuo ammiratore di Svevo) dove diviene protagonista la coscienza interiore dell'io narrante, che assorbe nel racconto tutta la sua incertezza, la sua scarsa considerazione di una logica consequenziale degli eventi. E così i D'Artagnan e le Anna Karenina del XIX secolo vengono surclassati dall'ordinario antieroe Zeno Cosini, con le sue incertezze, i suoi propositi mai realizzati e le sue manie mentali. Il tutto narrato da uno stile sufficientemente scorrevole ma al limite del banale, assolutamente lontano dalla suspense di Dumas o dai fuochi di Pirandello o dal fascino di Tolstoj.
Ciò che contraddistingue l'opera di Zeno è la disarmante semplicità della vicenda che rasenta la piattezza ma che d'altronde non potrebbe essere diversamente, essendo l'opera presentata come il resoconto di un uomo scialbo sulla sua scialba vita. Per questo motivo la Coscienza di Zeno non ha colpito minimamente il sottoscritto,anche per l'incompatibilità del suo carattere con quello di Zeno il quale più volte lo ha fatto esasperare con i suoi cervellotici piagnistei , facendogli preferire di gran lunga il più faticoso ma più scoppiettante Uno,nessuno e centomila pirandelliano.
Ad onta di ciò, come direbbe Svevo, consiglio questa opera che per la modernità del messaggio e per la novità dell'introduzione della psico-analisi al fine di scavare nei recessi dell'animo umano e della sua decadente esistenza non può non essere tralasciata, in quanto ha segnato la storia della letteratura, ma siamo sinceri. La Coscienza di Zeno non ha nulla a che vedere con il capolavoro. Buona lettura!