Narrativa italiana Classici La casa in collina
 

La casa in collina La casa in collina

La casa in collina

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La storia di una solitudine individuale di fronte all'impegno civile e storico; la contraddizione da risolvere tra vita in campagna e vita in città, nel caos della guerra; il superamento dell'egoismo attraverso la scoperta che ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. "Ora che ho visto cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: "E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?" Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero".



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La casa in collina 2021-07-22 08:17:01 Calderoni
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    22 Luglio, 2021
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L’impossibile vivere

Il turbamento esistenziale di Corrado, professore di materie scientifiche nato nella valle del Belbo ma trasferitosi per lavoro a Torino e sulle sue colline, riflette l’angoscia e la vergogna di Cesare Pavese per la mancata partecipazione attiva alla Resistenza partigiana. È un romanzo sulla solitudine e sul senso di colpa di un uomo. Per sedici capitoli su ventitré la vicenda si svolge tra la grande città Torino e le colline del Pino, poi si passa a un collegio di preti presso Chieri e infine, attraverso un viaggio che si può a tutti gli effetti definire fuga, si approda nelle terre d’origine di Corrado, dove il protagonista si ricongiungerà con la sua famiglia. I luoghi aperti dominano su quelli chiusi, anche se è particolarmente significativa l’opposizione tra la casa borghese di Elvira e della madre, dove Corrado alloggia fin da prima dello scoppio della guerra, e l’osteria delle Fontane, punto di ritrovo di Fonso, Giulia, Cate e Dino. Da una parte infatti prevalgono dialoghi scarni e frettolosi, dall’altra invece scene corali e polifoniche. Per la quarantenne Elvira il suo ospite rappresenta un’opportunità per togliersi l’etichetta di zitella. Lo coccola e lo accudisce, resta in pensiero per lui quando non rientra allo scoccare degli allarmi bomba. Gli trova il posto presso il collegio di preti a Chieri quando avverte che Corrado sulle colline del Pino è ricercato dai nazi-fascisti, avendo presenziato alle serate dell’osteria delle Fontane. Tuttavia, le premure di Elvira non vengono apprezzate dal protagonista, un uomo che non attendeva altro che un evento traumatico come la guerra per certificare il suo dramma personale. Appena prima del ribaltamento governativo italiano del luglio 1943, Corrado ritrova sulla propria strada un’ex fidanzata, Cate. È una figura fortissima, che si trasforma nella coscienza del protagonista ma non lo condanna mai. È leggera con lui, sebbene gli comunichi sempre la verità senza fronzoli (“Sai tante cose, Corrado e non fai niente per aiutarci”). È uno specchio che riflette la solitudine nella quale si ritrova Corrado, attorniato solamente da un cane nei suoi lunghi vagabondaggi sulle colline torinesi (il cane, tra l’altro, si chiama Belbo e richiama i luoghi natii del protagonista). Cate ha con sé un figlio, Corradino, che per diminutivo diventa Dino. Già dal nome, però, si crea un legame inscindibile tra Corrado, Dino e appunto Cate. È lo stesso protagonista, che narra in prima persona quelle vicende, a chiedersi se Dino possa essere suo figlio. Ripensa al suo passato, calcola quanti anni sono trascorsi dalla sua relazione con Cate e quanti anni ha Dino. Prova ad avvicinarsi a questa figura che gli assomiglia dal punto di vista somatico. Tenta di fargli da maestro e cerca di amarlo, ma come sempre non riuscirà ad amarlo nel profondo, perché a Corrado manca quella determinazione necessaria affinché un sentimento potente ed esaltante come l’amore possa travolgerlo. Ecco, dunque, spiegato perché nel collegio di Chieri Dino diventa più un pericolo che un ragazzo da proteggere per Corrado. Il giovane viene mandato a Chieri dopo che la madre è stata presa dalle forze nazi-fasciste insieme agli altri frequentatori dell’osteria delle Fontane, ma “Dino poteva far da pista e tradirmi, e l’idea che ormai fosse solo al mondo non riuscivo a pensarla, mi pigliava sprovvisto”. Proprio per tale motivo, l’acutissima Cate durante i mesi precedenti non si era illusa nemmeno un momento di confessare eventualmente a Corrado che Dino potesse essere suo figlio, perché, conoscendolo a fondo, sapeva di non poterlo caricare di una responsabilità che non sarebbe stato capace di reggere. Alla fine, anche Dino si unisce alla guerriglia partigiana e rende ancor più amara la solitudine di Corrado. Nei dolori del protagonista si riassumono quelli esistenziali dell’autore Cesare Pavese. Sotto forma di romanzo, lo scrittore piemontese parla delle sue angosce durante la Seconda guerra mondiale. È una testimonianza viva e toccante quella che ci restituisce Pavese in un romanzo dai tratti fortemente autobiografici. La forza della penna di Pavese emerge straordinaria nelle descrizioni delle colline, che rappresentano il suo habitat naturale. Attraverso gli affreschi collinari, Corrado è in grado di esprimere i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi turbamenti e anche le sue ambizioni di serenità. Si respira la collina, la si vede di fronte e la si indaga in modo approfondito anche grazie a Belbo, perché come sostiene Corrado, per conoscere a fondo un bosco non si può prescindere dall’aiuto di un cane. Tra le tante descrizioni una più di altre mi ha colpito, la seguente: “Un po’ di vapori, di nebbia ogni mattina, poi un sole dorato. Era novembre e ripensavo a quel fuggiasco di Valdarno, se c’era arrivato. Ripensavo a tutti gli altri, ai disperati, ai senzatetto. Fortuna che il tempo teneva. La collina era bella, mostrava ormai la terra dura, polverulenta, nuda. Nei boschi d’incontravano giacigli scricchiolanti di foglie”. Anche Corrado, come detto, diventa un fuggiasco, che reclama semplicemente “un letargo, un anestetico, una certezza di esser bene nascosto”. Non chiedeva, infatti “la pace del mondo, chiedevo la mia”. Nel viaggio odissea di ritorno a casa s’imbatte in immagini di morte, quella morte che sconvolge tutto, compresi i luoghi della giovinezza del protagonista. Il fuoco e la politica che sotto forma di guerra travolgono il mondo e il timore più grande è sentire a proposito del proprio paese “è bruciato”. La casa in collina non è, dunque, un semplice romanzo sulla guerra, ma è una riflessione a tutto tondo sull’esistenza. Un paio di riflessioni meritano di essere lette, rilette e puntualizzate. La prima: “Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista”. La seconda: “Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Ogni altra parola è superflua di fronte a considerazioni così argute ed elevate.

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La casa in collina 2021-01-30 11:18:43 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Gennaio, 2021
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Viltà o consapevolezza – il dramma irrisolto dell’

Gramsci diceva: “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.” Eppure quanto è difficile distinguere tra indifferenza e consapevolezza d’un male di vivere che induce a respingere ogni coinvolgimento in ciò che risulta brutale, violento, disumano.
È Corrado, il protagonista del bellissimo “La casa in collina” di Pavese, che meglio interpreta il disagio dell’intellettuale di fronte all’impegno che richiederebbe una partecipazione attiva alla lotta per la libertà in un paese devastato dalla guerra e dall’occupazione straniera.
La sua solitudine e il suo malessere lasciano trasparire il malessere dello stesso Pavese. C’è una sorta di identificazione tra personaggio e autore. Corrado è a disagio nel mondo in cui vive, il suo male di vivere lo pone ai margini di quella società di cui pure è parte integrante. È negli occhi di Cate, la ragazza che aveva amato anni prima, che legge la sua “nullità”. Il suo animo è profondamente turbato da ciò che egli pensa di se stesso: “Chi lascia fare e s’accontenta è già un fascista”. Eppure è proprio questa sua consapevolezza che lo riscatta, perché è più coraggioso chi sa ammettere i propri limiti di chi li nega o li giustifica. Corrado non giustifica mai se stesso. La sua indole è contemplativa, egli ha un rapporto speciale con la natura che lo circonda, di cui assorbe i colori, i profumi, i panorami spettacolari e ne rileva con sofferenza gli oltraggi subiti dalla guerra. Sa di non essere in grado di assumersi responsabilità che costituirebbero un peso insopportabile. Anche nei confronti di Dino, il bambino di cui sospetta di essere il padre, si sente colpevole, perché è incapace di andare fino in fondo a cercare la verità e le parole di Cate sono per lui come una dolorosa conferma di ciò che egli già pensa di se stesso: “Sei buono così, senza voglia. Lasci fare e non dai confidenza. Non hai nessuno, non ti arrabbi nemmeno.” Solo l’ansia di vedere il mondo di dopo, dopo lo sconvolgimento causato da quella che per lui è la vera guerra, quella combattuta sulla sua terra, che ha trasformato gli uomini in disperati, solo quest’ansia gli restituisce una certa vitalità. “Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia. Volevo essere buono per essere salvo.”
Corrado cerca di sopravvivere, non solo alla guerra intorno a lui, ma soprattutto alla sua guerra interiore, cercando un riscatto che non trova. È di fronte alla morte, agli uomini caduti combattendo, che Corrado si chiede il perché della vita e della morte e non sa darsi una risposta. La risposta forse la sanno solo i morti. “Soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

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La casa in collina 2019-04-28 16:26:04 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    28 Aprile, 2019
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Umanità e sicurezze

«La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute. […] Quella specie di sordo rancore in cui s’era conchiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte»

Quando quella che hai davanti è un’opera a firma Cesare Pavese sai per certo, ancor prima di cominciarla, che stai per iniziare un cammino che è molto più di quello che il semplice titolo o una breve prefazione illustrano. Ed è così anche in questo caso. Perché “La casa in collina” è sì sinonimo di rifugio, di grembo materno, di nido in cui Corrado, il protagonista professore, si ripara per scampare agli agguati della sempre più violenta e incessante Seconda Guerra Mondiale, ma è anche il luogo in cui egli si nasconde dagli agguati della vita. Perché Corrado è un uomo che volontariamente vive a distanza di sicurezza, vive asetticamente, con distacco. Tiene alla debita distanza il conflitto, le morti e la resistenza che lo circondano, ma tiene a debita distanza anche le responsabilità di uomo che ha. È un uomo dai molteplici cambi d’umore, che si mostra e si relaziona in modo incostante e sempre differente, talvolta anche in modo brusco e irriverente, è una persona che si crogiola nel suo cantuccino sicuro e che si circonda di persone semplici, allegre, non impegnative eppure attive perché volenterose di far qualcosa, di opporsi al regime. In questo contesto incontra anche Cate, suo amore giovanile e madre di Dino, bambino che porta di fatto il suo stesso nome e di cui ha il terrore e timore, e poi quasi il desiderio, di esser il padre. Tuttavia, la storia non aspetta che la consapevolezza sopraggiunga da sola e così, un giorno come un altro, entra in scena portando scompiglio in quel mondo ovattato tanto ricercato e bramato.
A far da perno e morale ai fatti vi sono i luoghi, la natura, una forte componente autobiografica e la guerra. La guerra e il suo significato, il suo essere, la guerra e il disinteresse che comporta nell’indifferenza generale, la guerra e l’impegno civile di chi non è disposto a lasciar correre facendo emergere la propria voce. Molteplici sono ancora le riflessioni esistenziali insiste, considerazioni che in taluni frangenti sono, tra l’altro, fortemente attuali.

«Questa guerra è più grossa di quello che sembra. Adesso è andata che la gente ha veduto scappare quelli che prima comandavano, e non la tiene più nessuno. Ma, fate attenzione, non ce l’ha coi tedeschi, non soltanto con loro: ce l’ha coi padroni di prima. Non è una guerra di soldati che domani può anche finire; è la guerra dei poveri, la guerra dei disperati contro la fame, la miseria, la prigione, lo schifo.»

Ne emerge una società dove fortemente contestata è l’adesione politica a un’ideologia, all’individualismo, a favore dei valori umani, della solidarietà, della collaborazione, della memoria. Affinché il sangue non sia stato versato invano, affinché i diritti siano davvero conquistati e protetti.

«Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero»

Il tutto attraverso una penna erudita, fluida, riflessiva che accarezza e conduce il lettore in un ritmo cadenzato e ben ponderato. Un testo con un protagonista forte, stratificato che è capace di farsi amare e odiare, un testo che va letto e riletto un poco alla volta per gustarne ogni sfaccettatura, ogni sfumatura, ogni prospettiva. Da leggere.

«L’esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.»

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La casa in collina 2016-02-03 19:37:49 catcarlo
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    03 Febbraio, 2016
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Un uomo in fuga

Se è vero che, come pare almeno in parte vero leggendo la vita dello scrittore, siamo di fronte a un romanzo autobiografico, Pavese aveva quantomeno dei grossi dubbi su se stesso, sul suo mondo e su come era andata sviluppandosi la propria esistenza: il protagonista Corrado è infatti non solo un uomo senza qualità, ma mette pure in mostra difetti tali che vien voglia di prenderlo a sberle quasi a ogni capitolo. Oltre a configurarsi come la rappresentazione dell’intellettuale intento a crogiolarsi nel proprio complesso di superiorità mentre se ne sta chiuso in una torre d’avorio, egli è anche un pusillanime eternamente indeciso che, non riuscendo neppure a riscattare il vile comportamento giovanile nei confronti del primo amore, figurarsi se può far altro che rimanere in pratica paralizzato nell’istante in cui la guerra richiede una presa di posizione tanto che, quando decide di agire, lo fa soltanto per fuggire. Nel ’43, egli insegna a Torino, ma vive riparato dai bombardamenti in collina a pensione nella villa di una zitella innamorata segretamente di lui e della di lei madre. Girovagando per i boschi, capita in un’osteria dove fa base un gruppo di giovani che comprende Cate, sua fiamma adolescenziale tenuta lontana perché non ritenuta all’altezza: la donna, che ha un figlio che si chiama come lui, e gli altri lo accettano, ma laddove, dopo il settembre, la situazione si aggrava, i loro percorsi si divideranno di nuovo. Stordito e irresoluto, Corrado viene salvato, assieme al ragazzo, dalla sua padrona di casa – anch’ella si dimostra alla fine più viva e responsabile di lui – prima che la paura lo spinga ancora una volta a scappare, questa volta in direzione del più sicuro paese natio. L’accurata descrizione degli stati d’animo della figura principale è accompagnata dall’altrettanto preciso disegno delle figure di contorno, fra le quali spiccano i vitali frequentatori della locanda, le donne sconfitte dalla vita (a ben guardare sia Cate sia Elvira lo sono), gli anziani che guardano parlando poco e soffrendo molto, i sommersi e i salvati - più i voltagabbana - che cercano di adattarsi ai nuovi padroni (i colleghi Lucini e Castelli). Di pari rilievo, come sempre in Pavese, è però l’importanza della natura, in mezzo alla quale Corrado riesce forse a provare una compiuta felicità: il paesaggio collinare è dipinto con mano felice nello scorrere delle stagioni, fra alberi frondosi, sterpaglie, radure a prato illuminate dal sole, strade e sentieri che in un momento sono innocui e un attimo dopo nascondono insidiosi pericoli, basta che cambi l’atteggiamento degli uomini che li frequentano. Un pessimismo diffuso sull’essere umano che è presente finanche nell’incontro con la lotta partigiana: in ogni caso, Corrado pensa bene di svicolare e non è sufficiente come scusa il colloquio con Giorni, salito in montagna malgrado i trascorsi da fervente fascista. Il tutto raccontato con la consueta, mirabile lingua che lo scrittore piemontese porta qui a livelli davvero alti: un modo di raccontare solo all’apparenza semplice, ravvivato dagli accenti dialettali e segnato da una cadenza che, rendendolo subito riconoscibile, dà l’impressione al lettore di sprofondare in un caldo abbraccio. In fondo all’edizione in mio possesso, una vecchia Einaudi per la scuola media) vi sono alcuni racconti che non molto si discostano come tematiche e scrittura: il rapporto dell’adulto o del giovane con la natura - ovvero la collina - per ‘L’eremita’ e ‘Il mare’, l’irresolutezza nelle decisioni de ‘Il signor Pietro’ nonché, soprattutto, un’acuta nostalgia per un mondo passato che è ormai morto o sta morendo nel quale non è difficile riconoscere quello dell’infanzia dell’autore. Una prospettiva, quest’ultima, che fa risaltare brani brevi ma assai intensi come ‘La vigna’ e quel ‘Vecchio mesttiere’ che si può ritenere il migliore del lotto grazie anche a una chiusa esemplare.

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La casa in collina 2015-08-31 10:54:58 Riccardo76
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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    31 Agosto, 2015
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Una forte presa di coscienza

La guerra in questo libro è vista dalla prima linea di chi l’ha subita, di quelle persone che hanno dovuto nascondersi sotto terra per sopravvivere, non solo dagli uomini armati che erano al fronte.
La storia narrata in prima persona da Corrado, un insegnante che vive la guerra con distacco e disinteresse, quasi come se la tragedia fosse troppo grande per poter essere vissuta a pieno, troppo dolorosa per reagire, un uomo sostanzialmente solo che si costruisce uno schermo protettivo di indifferenza,
Il conflitto della gente comune, strappata dalle loro belle terre e gettate in una realtà talmente lontana dalla vita, da risultare alienante. Nascondersi, scappare, trovare un luogo sicuro dove cercare protezione, non ci sono scene cruente che facciano clamore, non si legge di dettagli strazianti, eppure la guerra ci entra dentro grazie alle sapienti parole di Pavese.
Questa storia di Pavese sembra essere scritta, almeno inizialmente, in maniera distaccata si ha la sensazione che tutto sia la normalità, le bombe sulla testa sembrano destinate ad altri, come quando si dice: “Tanto a noi non succederà”, si continua una vita, diversa, ma apparentemente normale.
Ad un certo punto una presa di coscienza, la normalità viene stravolta e quel desiderio di solitudine, quella sensazione di bastare a se stessi, di non aver bisogno di nessuno viene a mancare, la violenza disumana della guerra, che fino ad un certo punto annichilisce, ci scoppia in faccia e ci fa male.
Favoloso il finale, come una sorta di monologo, una sorta di viaggio verso se stessi a scalfire quella corazza di protezione che ha coperto la cruda realtà. Una visione completa della tragedia, una condanna e la consapevolezza che ogni morto in guerra sotto i bombardamenti, è una possibilità in più di sopravvivere. Sparisce l’indifferenza e appare un senso quasi di gratitudine verso la vita, e un rispetto estremo verso chi, con la propria vita, ha pagato il prezzo per la sopravvivenza degli altri.
Il protagonista si “sveglia” accorgendosi che i morti non sono semplici morti, ma sono l’unica ragione per la quale egli stesso è vivo.
Un libro molto bello e toccante, scritto con la maestria che solo i grandi possono permettersi, una storia che ci ricorda una delle tragedie a noi più vicine, e che spesso, con i nostri atteggiamenti tendiamo a voler dimenticare.

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La casa in collina 2013-03-15 18:39:58 antares8710
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antares8710 Opinione inserita da antares8710    15 Marzo, 2013
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Ogni guerra è una guerra civile

"Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo in terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Ci si sente umiliati perchè si capisce-si tocca con gli occhi- che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato".

Queste parole provengono dal capitolo conclusivo di "La casa in collina" e meglio di tutte possono spiegare la trama e le tematiche del romanzo di Pavese. La meditazione filosofica-esistenziale sul significato della guerra, sull'impegno civile, sul disinteresse e l'indifferenza per il mondo circostante, sono al centro del racconto di Cesare Pavese. Tutti i romanzi di Pavese, a cominciare dal suo più noto "La luna e i falò", hanno una forte componente autobiografica; e anche "La casa in collina" rispecchia molto della vita travagliata dell'autore.
Il protagonista principale della vicenda è Corrado, un professore che si disinteressa completamente della guerra e dei bombardamenti devastanti che la Seconda Guerra mondiale sta portando nella sua regione, tra la sua gente e le sue colline. Egli vive con apatia questo momento storico drammatico e sembra quasi che la realtà a lui intorno non gli interessi affatto. Per questo decide di ritirarsi in un paese rurale in cima ad una collina, luogo mitico e fortemente simbolico sempre presente nell'universo pavesiano. La collina rappresenta il grembo materno. Il ritorno a un luogo sicuro, che dà protezione e sicurezza, che ti isola completamente dal mondo esterno. Un rifugio che però, alla lunga, non sembra offrire al protagonista quella sicurezza cercata. In questo mondo ovattato e lontano dalla Storia, Corrado trova conforto frequentando gente allegra e semplice che passa le giornate in una vecchia osteria del paese. In questo quadro si inseriscono anche la madre e il suo grande amore del passato, Cate, madre di Dino, che Corrado sospetta essere suo figlio.
Un giorno però, la Storia farà il suo ingresso prepotente e violento in quel mondo contadino, distruggendo qualsiasi sembianza di serenità e indifferenza...

Al centro del romanzo c'è la guerra. Corrado riflette sul significato della guerra e del profondo abisso nel quale sembra essere precipitato l'uomo moderno. La riflessione esistenziale del protagonista, sembra quasi annullare ogni convinzione o credo politico, come se questo fosse del tutto inutile di fronte alla barbarie e al sangue dei caduti. Le idee politiche e l'adesione ad un'ideologia, si sbriciolano davanti al recupero degli antichissimi valori di solidarietà, di fratellanza e di pietà. Valori che ci portano a pensare che i morti non abbiano colori; che il sangue da loro versato non verrà dimenticato perchè, come ci ricorda alla fine Pavese, "ogni guerra è una guerra civile: ogni cadavere somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione".

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La casa in collina 2010-12-31 12:16:54 darkala92
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darkala92 Opinione inserita da darkala92    31 Dicembre, 2010
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La finta pace in collina..

"La guerra non doveva finire se non dopo aver distrutto ogni ricordo e ogni speranza."

Una frase che mi ha colpito molto. Una storia molto particolare, singolare, oserei dire.
L'interpretazione che do, dopo la lettura del libro, è che Cesare Pavese ha voluto mostrare, in una singola persona, due tipologie, due comportamenti nei confronti della guerra, come se ci fossero due Corrado (il protagonista).
Una tipologia era quella dell'uomo misantropo, che vuole allontanarsi dalla società e dal rumore della guerra, rifugiandosi in un luogo idilliaco, quale la collina, in cui poter osservare il mondo dall'esterno, la città che brucia e che urla poichè la guerra la sta massacrando.
L'altra figura è quella di un uomo che spera nella guerra, con un senso abbastanza cinico e freddo nei confronti di quello che sta accadendo.
Un uomo che sebbene cerchi di allontanarsi dalla battaglia, ne sente comunque l'eco, qualsiasi parte lui vada.

Un misantropo, che però, in solitudine, comincia a riflettere, a ricordare la sua giovinezza, a riassaporare gli errori e le giuste decisioni prese in un tempo ormai trascorso. Riaffiora alla sua mente la sua libertà, la sua famiglia, l'amore. Un amore, piuttosto sottovalutato, verso una donna, Cate, che ha lasciato in giovane età e l'ha ritrovata dopo anni: cambiata, maturata, madre.

Vengono mostrati i dolori di un uomo che si vede tagliato in due parti: da un lato l'uomo solitario, che ama passeggiare tra i boschi con il suo unico vero amico: il cane Belbo; mentre dall'altro lato abbiamo l'uomo che vuol godere della compagnia di un gruppo di persone che si ritrova quotidianamente all'osteria sulle colline, all'insegna di danze, canzonette e discorsi sulla guerra.

Un uomo che è costretto a rinchiudersi in un monastero poichè ricercato dai tedeschi, lo stesso uomo che abbandonerà Torino (Chiari) per ritornare nella sua vecchia casa, affrontando partigiani e difficoltà varie. Un viaggio da non sottovalutare poichè gli mostrerà i veri dolori e conseguenza della guerra.

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La casa in collina 2010-12-31 10:40:44 Jan
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Jan Opinione inserita da Jan    31 Dicembre, 2010
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Piccola sinfonia delle idee.

Pavese è un'avventura.
Incominciare con la "Casa in collina" è preferibile al solito "La luna e i falò" con cui, solitamente, tanti insegnanti "iniziano" lo studente allo stile pavesiano.
Che, a parer mio, è un tipo particolare...di stile.
Non riassumibile né catalogabile facilmente.
Pavese è il dualista per eccellenza, esito inquieto di un animo di Langa mescolato all'urbe.
Ma Torino, la città che solo nel "Compagno" tradirà per Roma, gli propone inquietanti e terribili quesiti. Cesare non sa mai come rispondere a questi interrogativi che, se per gli sciocchi sono e restano semplici, per il suo animus rimarranno inarrivabili fino alla fine.
La collina di quest'opera non è, non ci si illuda, unità di Langa.
E' più simile all'eremo dove per caso un errante si ritrova per un secondo a ragionare.
La Langa è anche ... collina.
In questo senso io trovo questo libro propedeutico ad uno dei capolavori pavesiani: "I dialoghi con Leucò".
Là sì che si parla del mare di colline che ha nome Langa.

Ho un collega cardiologo che viene da un posto chiamato Costigliole, presso Asti.
Spesso abbiamo chiacchierato insieme di Cesare Pavese ed una sua affermazione, in realtà, mi ha colpito.
"Se non sei piemontese", mi ha detto una volta il collega,"con Pavese puoi arrivare fino a un certo punto...poi devi mollare la presa".
Temo che il collega abbia ragione.
Eppure, per quanto abià vedù e girà (questo è istriano), mai ho incontrato e "conosciuto" un poeta come questo.
Un uomo sicuramente schivo.
Come la sua magnifica terra.

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