Dio ne scampi dagli Orsenigo
Letteratura italiana
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Dio ne scampi dagli Orsenigo
Tra i suoi molti pregi, la satira non ha quello di saper resistere bene al passare del tempo: una considerazione di cui a chiunque sarà capitato di fare esperienza e che riduce l’efficacia di questo breve romanzo scritto dal napoletano Imbriani negli anni Settanta dell’Ottocento. Tante mode sono passate sotto i ponti da quando era in voga il romanzo romantico, tutto passioni e scavo psicologico, così che sarebbe difficile percepirne la messa in burla, se non fosse per le beffarde osservazioni che il narratore dissemina qua e là. Più evidente risulta invece il volersi allontanare dallo sciacquare i panni in Arno di manzoniana memoria: la lingua di Imbriani scoppietta e va per conto suo – con, in più, un profluvio di virgole messe apposta a capocchia – mentre i suoi personaggi sottolineano con orgoglio le proprie caratteristiche regionali. E’ allora quasi inevitabile che i più maltrattati finiscano per essere i toscani, tutti intenti a esprimersi con un fortissimo accento dialettale, al limite della caricatura, che ne rende i discorsi poco comprensibili: al confronto, napoletani e milanesi si punzecchiano in punta di fioretto. Il risultato è che lo scrittore finisce per fare da involontario precursore al più naturalistico romanzo italiano della fine del suo secolo ma, tutto sommato, deve anche essersi divertito parecchio a scrivere queste centocinquanta (scarse) paginette, in cui ne ha stivate di ogni – amore e tradimento, colpa e perdono, deboscia e sussulti d’orgoglio, freddezza e compassione più un duello all’alba (cioè, no, al tramonto) – andando a costruire una storia di annaffiatori annaffiati che, malgrado il tempo passato, riesce ancora a farsi apprezzare con un sorriso sulle labbra pur risultando la lettura non sempre scorrevole. A Napoli, Almerinda, moglie giovane di un anziano giudice, vuol lasciare l’amante Maurizio e utilizza come ambasciatrice l’amica Radegonda – i nomi sono davvero notevoli - appena giunta da Milano. Missione compiuta, ma la messaggera s’infatua e, quando reincontra l’uomo all’ombra del Duomo, lo seduce solleticandone la vanità: Maurizio preferirebbe le sartine, ma non resiste, non immaginandosi però che ‘la’ Radegonda ha intenzione di mollar la famiglia, inclusa una figlia ancor piccola, piuttosto che lui. Di qui la fuga a Firenze e un rapporto sbilenco che la donna si ostina a credere vivo, mentre l’amante la considera una palla al piede senza però il coraggio di metterlo in chiaro, ma solo limitandosi a lunghi – e assai divertenti – soliloqui borbottati senza costrutto. Ricompaiono anche Almerinda, nel frattempo diventata vedova, assieme alla famiglia abbandonata e così tutti i personaggi hanno modo di veder la loro prospettiva iniziale ribaltata esattamente come, per paradosso, fa l’autore del comune sentire stimando il rapporto fra adulteri più soffocante di quello fra gli sposi. Se Imbriani trova diletto nel sottolineare a fini umoristici tutto ciò assieme alle caratteristiche regionali, le sue figure sono comunque accomunate dall’estrazione sociale benestante, da uno sfondo di ipocrisia e dal non voler vedere le cose come stanno, anche se a volte l’espressione di un affetto disinteressato in qualche modo le riscatta. Da notare che, nella mia edizione acquistata assieme a L’Unità una vita fa, il romanzo è accompagnato da una ‘introduzione’ di Manlio Santanelli che è più che altro uno spigliato e divertente racconto che narra dell’attrazione del protagonista per le donne affette da qualche menomazione fisica.