Cenere
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
Cenere
“Cenere” è il romanzo che fonde la sofferenza e la speranza, il bene ed il male, in maniera mirabile.
Impossibile non definirlo un piccolo gioiello; una trama corposa e ben sviluppata, una galleria di personaggi immortali, una serie di scatti color seppia del territorio sardo, una penna che incide come un bisturi la carne quando racconta il dolore.
La speranza e la fede di una giovane donna si scontrano contro il muro della durezza della vita; quanto amore e quanti sogni, quanto bisogno di scappare dal grigiore, quanti sacrifici, quanto tempo speso ad aspettare confidando in un pizzico di fortuna e di affetto.
I personaggi della Deledda sono figli di una società retta da leggi ferree, o nasci ricco o nasci povero, o nasci padrone o nasci servo.
Il tempo scorre inesorabile tra le strade imbiancate di polvere, tra le casupole dei pastori, tra le piccole bicocche della servitù; la notte ed il giorno si alternano tra le aspre boscaglie del nuorese, la vita narrata dalla Deledda è ruvida come il territorio, è spartana, è spicciola, è grigia come la cenere.
La cenere è ciò che resta del fuoco, è cenere ciò che rimane dopo passioni brucianti, dopo delusioni scottanti, dopo che la vita ha arso sentimenti e sogni.
In questo romanzo la poetica deleddiana esplode con forza e vigore, sia in tema di immagini sia in tema di contenuti.
Tra queste pagine vi è l'apoteosi del canto del territorio sardo, culla di una società ancorata a culti e tradizioni ataviche e inespugnabili.
Gli uomini e le donne sono il frutto della terra, sono cuori sensibili e passionali, hanno un volto cupo ed un volto limpido, possiedono un animo avvezzo alla sofferenza e al sacrificio.
E' espressa con lucidità e accettazione la sottile eppure marcata linea che divide il bene ed il male; intesi come due facce della stessa medaglia, quasi imprescindibili l'uno dall'altro.
Tra le pagine di questo romanzo c'è una Deledda al culmine delle sue potenzialità narrative, per nulla inferiore al più noto “Canne al vento”; riesce a fondere con ardore tutti gli elementi necessari per dare una voce ed un volto ad ogni uomo e donna rappresentati, concentrando in ognuno di loro tutte le sfumature della gioia e del dolore, evidenziando con forza la dicotomia, a lei cara, tra male e bene.
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Dalla Cenere alla cenere
Deledda, che rimane al momento l’unica scrittrice italiana Premio Nobel per la Letteratura, scrive “Cenere” ad inizio del XX° secolo. Non è certamente ancora l’affermata scrittrice di “Canne al vento”, eppure questo romanzo sembra già anticipare certe tematiche care all’autrice sarda: un senso profondo di precarietà della vita, l’evidente constatazione che “Siamo nati per soffrire” e soprattutto un’analisi profonda della sua terra, una Sardegna rurale, a tratti tribale, in cui si evince “il male, la miseria, l’abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone”.
Sullo sfondo di un territorio aspro, selvaggio, nel quale spicca il massiccio del Gennargentu, in un mondo ancora profondamente contadino ove vige la mezzadria, si inserisce la storia di Anania, raccontata come si trattasse di una narrazione davanti al focolare, di quelle che ti fanno dimenticare tutto il resto perché non si vede l’ora di sapere come va a finire. Nato da una relazione clandestina extraconiugale, abbandonato dalla madre e cresciuto poi dalla famiglia del padre, Anania porta dentro di sé il vissuto della Sardegna più reale, quella delle credenze popolari, che spera di trovare tesori nascosti nei Nuraghe, ma anche quella “degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino”.
Nel raccontare l'evoluzione di Anania attraverso lo spazio (dalla Sardegna al Continente) ed il tempo (dall'infanzia alla maturità), ne evidenzia i limiti, la progressiva presa di coscienza che il suo riscatto sociale, per mondarsi dall’onta di una madre colpevole di abbandono e di cattiva condotta, debba passare inevitabilmente dal rinunciare all’amore, al matrimonio, per assumere una mentalità paternalistica, una forma di controllo assoluto proprio nei confronti della madre degenerata. Ma dove può portare questo comportamento? La Deledda lo riassume nei pensieri di Anania: “Ora si, ora capisco che cosa è l’uomo: è una vana fiamma che passa nella vita e incenerisce tutto ciò che tocca”.
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Un estremo slancio vitale nell’ora della morte
Grazia Deledda traccia un quadro della Sardegna di fine Ottocento seguendo le vicende di Anania Atonzu, figlio di Olì e di Anania il mugnaio. Quest’ultimo abbandona l’amante Olì, non potendola sposare essendo già maritato a Nuoro con l’anziana Tatana. Olì per l’amore con Anania era anche stata cacciata dalla casa paterna ed era stata costretta a sistemarsi nel villaggio di Fonni, da una parente dell’amante. Da zia Grathia Olì rimane per alcuni anni e intanto cresce il piccolo Anania, il figlio concepito insieme all’amante. Quando Anania è ormai prossimo agli otto anni, Olì sacrifica il proprio ruolo da madre e conduce con l’inganno il bambino a Nuoro dal padre e dalla matrigna. Olì scompare nel nulla e di lei non si avranno più notizie fino alle ultime tribolate pagine del romanzo. Anania, il protagonista del libro, si forma a Nuoro presso gli umili ambienti vissuti da suo padre mugnaio e da zia Tatana, la quale si rileverà una matrigna attenta e affettuosa. Il contesto nuorese nel quale è inserito il giovane è degradato: «Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconce, abituandosi allo spettacolo dell’ubriachezza e della miseria incosciente». Spiccano ancor di più se paragonati al degrado circostante i componenti della famiglia Carboni, ricca casata di Nuoro che possiede grandi proprietà in diverse zone della Sardegna. Il signor Carboni elargisce aiuti a tutti coloro i quali ne hanno bisogno e diventa padrino di moltissimi bambini e ragazzi, tra cui anche Anania, il figlio del mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà» afferma il giorno del battesimo del protagonista il padrino. E in effetti Anania non segue le orme del padre ma può studiare per diventare avvocato. Da Nuoro va a Cagliari, da Cagliari torna a Nuoro e raggiunge il continente, Roma. Oltre allo studio, il minimo comune denominatore dell’esistenza di Anania è il ritrovamento della madre Olì, dopo che durante l’infanzia aveva sempre sognato di ritrovare il padre in una sorta di inseguimento senza fine. Non è infatti un caso che poco dopo i vent’anni si imbarca per Roma: aveva sentito da un mercante di Fonni che Olì si era trasferita nella capitale dove conduceva una vita disgraziata, da donna di facili costumi.
Per Anania Olì diventa un’ossessione, dalla quale non riesce a liberarsi. Il suo obiettivo è «ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire». In effetti, ciò accade. Anania, ormai grande, è promesso sposo di Margherita, figlia del suo padrino. Quest’amore ha fatto parlare molto a Nuoro e la lontananza di Anania per motivi di studio l’ha cementificato. Tuttavia, nel momento in cui sembra che si possa concretizzare, perché Anania è prossimo a terminare gli studi e quindi a emanciparsi definitivamente dalla condizione servile della sua famiglia, ricompare Olì. In realtà, la madre di Anania non fa nulla per ripresentarsi: è il caso che la riporta sulla strada del figlio. È una donna malata, esausta della vita. Non è mai stata a Roma, ma ha sempre vagato per la Sardegna, legandosi a diversi uomini che puntualmente l’hanno abbandonata, a partire da Anania il mugnaio. Madre e figlio si ritrovano dove avevano imparato a conoscersi, ovvero a Fonni nella bettola di zia Grathia. In Anania c’è ferocia, unita a una consapevolezza: non lasciare più fuggire propria madre, a costo di perdere tutto quello che aveva seminato nel corso degli anni, compreso il futuro matrimonio con Margherita. «Figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei» scrive Anania a Margherita in una struggente lettera notturna datata 18 settembre. La replica di Margherita pone fine alla relazione: «Tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: “Hai fatto il tuo dovere!”». Nemmeno il tempo di metabolizzare questo turbolento epilogo che Anania perde un altro elemento femminile della sua vita: la madre. Olì, infatti, nello stanzino in cui aveva cresciuto il figlio negli anni a Fonni si taglia la giugulare.
Abbandoni, inganni, suicidio, eppure il finale non è di un romanzo tragico, bensì è un commovente slancio vitale perché si inserisce l’estremo sacrificio di una madre per un figlio. Anania riscopre il piacere dell’esistenza nel momento in cui incontra la morte. «Mai, come in quel momento, davanti al terribile mistero della morte, egli aveva sentito tutta la grandezza ed il valore della vita. Ed ecco ella, ella sola s’era riserbata il compito di rivelargli, col dolore della sua morte, la gloria suprema di vivere: ella, a prezzo della sua propria vita, lo faceva nascere una seconda volta, e questa nuova vita era incommensurabilmente più grande della prima». La stessa Olì nel delirio finale che precede l’estremo gesto racconta a zia Grathia: «Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più... Lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono...». Olì ritorna cenere e così si spiega il titolo del romanzo della Deledda: tutto è cenere, la vita, la morte, l’uomo, il destino stesso che la produceva. Prima di abbandonarlo a Nuoro, Olì aveva regalato ad Anania un sacchettino con dentro un mucchietto di cenere e gli aveva chiesto di mantenerlo vicino al cuore tutti i giorni della sua vita. Anania l’ha fatto e quel sacchettino è servito anche come elemento di riconoscimento dopo tanti anni dall’abbandono. Di fronte alla spoglia più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, Anania ricorda che «fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita».
Lo stile della Deledda in questo romanzo risulta in alcuni punti, soprattutto quelli descrittivi, ridondante ed eccessivamente retorico (abusata, ad esempio, la metafora del giovane come un uccello pronto a spiccare il volo). Per essere un volume di inizio Novecento, precedente a Il fu Mattia Pascal, l’approfondimento psicologico dei personaggi è notevole. Inoltre, l’autrice riesce a catapultare il lettore nell’atmosfera rurale di una Sardegna mezzadra e rude, cristallizzata in un eterno Ottocento, scenario ideale per il topos letterario post-coloniale dell’essere e sentirsi periferia di tutto. In questo intreccio di personaggi funge da ulteriore personaggio il paesaggio aspro e continuamente sconvolto dagli eventi metereologici, metafora della natura umana in balia di forze dalle quali può trovare solo temporanei ripari. Ecco quindi che i personaggi di Cenere vedono le cose succedere come ineluttabili eventi atmosferici, senza potersi mai davvero opporre.
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L'abbandono, la colpa, l'amore
“Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull'orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s'avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po' obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie.”
Questo l'incipit di “Cenere” di Grazia Deledda, pubblicato nel 1903; vi si narra la storia di Anania, figlio illegittimo della bella, giovanissima e ingenua Olì.
Anania viene al mondo in una misera casetta a Fonni, dopo che sua madre è stata rinnegata e cacciata di casa dal proprio padre perché è rimasta incinta di un uomo sposato.
Quando il bambino nasce Olì ha già perso la voglia di vivere e di sperare: il figlio trascorre un'infanzia fra povertà e tristezza, trascurato dalla mamma e con la voglia di conoscere suo padre. Ma quando Olì lo porta per davvero dal padre e lo lascia lì, Anania ne soffre enormemente: l'abbandono e la colpa di questa madre già assente sia fisicamente che emotivamente gli scava dentro una ferita profondissima che non riuscirà mai a far rimarginare.
La scelta di Olì si rivela, in fondo, razionalmente giusta: Anania trova una famiglia; la moglie del padre, al contrario del vecchio stereotipo della “matrigna cattiva” sarà la vera figura materna per lui, quella che lo nutrirà, lo consolerà, lo aiuterà ed intercederà per lui, per fargli avere un futuro migliore. Il ragazzo, grazie ad un benefattore locale, riuscirà a studiare, si potrà fidanzare con la bella e ricca Margherita.
Eppure...
Eppure qualcosa lo consuma dall'interno: è il dolore che gli ha causato sua madre, Olì. L'autrice riesce a descrivere questi sentimenti ambivalenti e totalizzanti con un realismo ed una intensità sempre perfettamente credibili. Anania passa dall'estremo odio all'amore più profondo nei confronti della mamma: dal desiderio di essere liberato dal peso dell'esistenza di lei, che rappresenta la colpa e gli ricorda il suo abbandono, al bisogno urgente di ritrovarla e di averla per sé.
“Cenere”, uno dei primi romanzi della Deledda, si presenta quindi come un'opera di notevole valore letterario: la vicenda, narrata in una splendida prosa poetica che non mi stanco di ammirare e di rileggere, riesce a toccare la nostra umanità nel profondo, andando a scavare in sentimenti ed emozioni primitive e necessarie come l'amore, il dolore, il senso di colpa.
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Una scintilla cova
Tra i romanzi del Nobel sardo, è questo uno dei più complessi e interessanti benché si collochi in una fase produttiva ancora acerba e lontana cronologicamente dall’opera che viene generalmente riconosciuta come il suo capolavoro:” Canne al vento”. Rileggendo la sua produzione con una certa continuità è emersa in chi scrive la consapevolezza netta di trovarsi di fronte ad una serie di romanzi che anticipano la tematica sintetizzata efficacemente nella metafora contenuta nel titolo “Canne al vento” e che appare infatti abbozzata in “Elias Portolu” e maggiormente sviluppata in “Cenere”. Il tema in questione è la centralità del fato sul vissuto umano, una sorta di predestinazione alla sofferenza, all’espiazione in vita di colpe ataviche, alla inutilità del dolore, tutto comunque da esperire nel proprio percorso esistenziale.
L’opera seppur complessa per l’impianto narrativo, per la ricercata caratterizzazione psicologica , per la costruzione dei personaggi, per la funzionalità delle descrizioni paesaggistiche tese a assecondare stati d’animo, ad anticiparli o a contrapporvisi, risulta ampiamente riuscita nella prima parte ed eccessiva nell’enfatizzare situazioni, emozioni e catarsi nella seconda e ultima parte. Si presenta la vicenda umana di Anania, bimbo nato fuor di matrimonio e condotto per volere di una madre ancora bambina, Olì, in seno alla famiglia del padre legittimo, accolto amorevolmente dalla moglie di lui. Cresce Anania, abbandonato a tranello dalla madre a sette anni , dopo aver poggiato le sue fondamenta esistenziali in un ambiente povero, connotato da amore e difficoltà. Il suo apprendistato alla vita prosegue in città, a Nuoro, dove le relazioni della famiglia paterna lo portano a diventare uno dei tanti protetti di un ricco padrino, il signore presso il quale lavora la sua famiglia. Innamorarsi di Margherita , la figlia dei ricchi, allontanarsi per gli studi dapprima a Cagliari e poi a Roma non lo distoglieranno dalla macchia da cui si sente infangato. Egli può ambire al riscatto individuale ma deve risolvere se stesso cercando la madre della quale immagina infinita perdizione. Il romanzo termina con un seppur debole spiraglio e con una scintilla che cova, comunque, nella cenere e che alimenterà altri fuochi, altre passioni.
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Canne al vento
Tra la cenere cova una scintilla
Olì ha la bellezza e l’ingenuità della gioventù, i suoi occhi brillano come stelle perlate e le sue speranze sono dolci come i profumi delle erbe aromatiche. Ma le promesse d’amore si rivelano purtroppo intrise di menzogne, il giovane cui ha donato il cuore è già sposato e Olì si ritrova ragazza madre, ripudiata dalla famiglia, misera e sola. I sogni si tramutano così in grigia e inconsistente cenere, bruciati dalla forza ineluttabile e crudele della passione.
Il piccolo Anania vive l’infanzia con la giovane madre, che non gli regala tenerezza e carezze ma porta su di sé la freddezza e l’infelicità della miseria. E anche lui sogna, così come faceva Olì, sogna di andare alla ricerca del padre per regalarle un po’ di gioia e intanto si accoccola a lei nel letto cercando di darle un po’ di calore con i suoi piedini. E finisce per ritrovarsi anche lui solo, abbandonato davanti alla casa del padre naturale.
Il destino sembra volgersi però al meglio per Anania: accolto con amore dalla moglie del padre, trova una famiglia, riceve l’attenzione di un ricco benefattore locale che gli consente l’accesso agli studi e a un possibile affrancamento, e infine scopre un amore onesto e semplice con una ragazza perbene. Ma mentre sulle pagine scorre la vita di Anania, si percepisce sempre più la tragica assenza di Olì. L'immagine fisica della madre si scolorisce nella sua memoria, come una vecchia fotografia, ma Anania ne avverte in ogni momento la mancanza: è più vergogna che amore, è desiderio di scoprire dove sia, è bisogno di rimproverarle la sua fuga e dirle qualcosa per cui forse non ha nemmeno le parole, è un’ossessione che gli impedisce di proseguire il proprio cammino.
Con il suo stile così peculiare, che fonde il realismo dei sentimenti alla magia di fiabe di antica memoria, dal fascino ancestrale e suggestivo, Grazia Deledda è capace di parlare del e al cuore umano, delineando personaggi indimenticabili e facendone rivivere tutte le emozioni: la disillusione e il male dell’abbandono, la forza della passione cui sembra impossibile opporsi, lo smarrimento di una vita così inscindibilmente legata alle proprie radici, alla propria terra, a quanto di noi c’è, pur non essendo visibile. Paesaggi sardi, aspri e avari, si fanno simbolo di una società dura, ancorata alle sue leggi immutabili, abitata da donne dalle vesti nere e dalle dita nodose, animata da incolori e malinconiche sofferenze. Tutte le speranze e i sogni sono destinati a dissolversi in grigia e impalpabile cenere. Eppure forse, proprio nella cenere, c’è ancora una scintilla, un seme di speranza, che nasce dall’amore e dal sacrificio, e nutre la vita.
“Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l’uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell’ora suprema, egli ricordò che fra la cenere cova spesso una scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita”.
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Lettura emozionante
Grazia Deledda ha sicuramente meritato il premio Nobel e questo romanzo (che fu menzionato dalla commissione giudicatrice nella cerimonia di conferimento) ne è una forte dimostrazione. La vera protagonista è la Sardegna che non rappresenta solo lo sfondo della vicenda, ma ne impregna lo svolgimento ed i personaggi con le sue tradizioni, le sue credenze, i suoi costumi, la sua mentalità, la sua umanità. I personaggi sono assolutamente veri, tutti convincenti, anche quelli che fungono da comparse fugaci. Anania, il personaggio centrale, è rappresentato nel suo crescere da sprovveduto fanciullo a giovane adulto più consapevole (ma non troppo) in modo profondo ed articolato. La storia è avvincente, anche se narrata in uno stile molto lontano da quello cui ci hanno abituati il cinema d’azione e la letteratura contemporanea: le parti descrittive a volte prevalgono sull’intreccio (anche perché, come spiegano i critici, svolgono la funzione di corrispondere oggettivamente agli stati d’animo dei personaggi) e in certi casi assumono toni elegiaci che rischiano qua e là l’esagerazione. Anche la relazione amorosa fra Anania e Margherita è narrata con accenti enfatici cui non siamo forse più avvezzi, ma che naturalmente vanno collocati nell’epoca di composizione del romanzo e si possono spiegare con la stessa ingenuità dei due adolescenti. E’ stata una lettura emozionante, una riscoperta da non sottovalutare.