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Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio?
“Una donna” è l’alter ego di Sibilla Aleramo, autrice spesso indicata come vessillo del femminismo italiano d’inizio secolo XX. “Una donna” è anche la dolorosa, autobiografica storia di una persona sulla quale si stampano le tristi esperienze dei genitori – un padre forte, ma anche infedele; una madre esaurita (“Oh la voce di mia madre, già diversa, che diceva cose incoerenti!”) e propensa al suicidio - e le ombre inquiete di un matrimonio senza amore.
Il percorso dell’autocoscienza si compie attraverso un’infanzia trascorsa in una città di provincia sul mare, una gioventù passata a Roma, infine una maturità raggiunta a Milano: ogni luogo è teatro dei tradimenti, delle violenze fisiche e degli stereotipi culturali che relegano la donna in ruolo supplice e subordinato. O in posizione di debolezza e svantaggio.
La ribellione di Sibilla, tuttavia, non può attuarsi pienamente (“Rispondere anche a nome dei fratelli: va’, mamma va’!”), perché la legge e la mentalità proteggono il prepotente: la protagonista non riesce ad affrancarsi come vorrebbe perché cede di fronte alla paura che le venga sottratto il figlioletto (“Sembrava un Sigfrido in miniatura”), unica vera ragione di vita (“Egli era il mio solo compagno”) pur in una mutata e più consapevole concezione della maternità (“Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio?”).
“Una donna” è un diario intimo e un documento storico, ma rimane anche oggi una lettura che induce a riflettere su natura (“Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi…”), ruoli e opportunità che troppo spesso vengono incredibilmente, arcaicamente negati.
Bruno Elpis
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