Dettagli Recensione
Genio e sperimentalismo
Uno dei romanzi più complessi di Calvino: per contenuti, struttura, influssi e impostazione culturale. Sicuramente un prodotto del suo genio creativo immerso negli sperimentalismi degli anni settanta.
Il contenuto apparente: le città invisibili
Sembra una contraddizione in termini: attribuire l’apparente contenuto a realtà invisibili, le città invisibili. Ma è una costante in Calvino che, fin dalla trilogia de “I nostri antenati”, si è occupato - nell’ordine - di un personaggio fisicamente dimidiato, di un eroe rampante e arboricolo, di un’entità cavalleresca inesistente. Contraddizioni viventi o personificazioni di fantasmi umani.
Ogni capitolo è introdotto dal dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari: Kublai Khan interroga l’esploratore sulle città del suo sterminato impero. E Marco Polo descrive città reali o immaginarie, suscitando interesse e attenzione nel Gran Khan.
Le cinquantacinque città descritte da Marco Polo hanno nomi di donna e sono il simbolo della complessità reale da imbrigliare nella struttura il meno possibile rigida di un’opera.
La struttura e la letteratura combinatoria
Tecnicamente, il romanzo pubblicato nel 1972 rappresenta – per ammissione dello stesso autore (“questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”) – un esperimento della letteratura combinatoria.
I dialoghi di Marco Polo e Kublai Khan sono una cornice, un telaio. All'interno dei nove capitoli, il lettore può assumere un ruolo attivo e giocare a “gatto e topo” o a “nascondino” con l’autore, cercando le combinazioni cifrate dell’opera e i significati.
Le città sono organizzate in undici categorie: memoria, desiderio, segni, le città sottili, scambi, occhi, nome, morti cielo, le città continue, le città nascoste.
Il lettore può valutare se seguire la sequenza proposta dall’autore, oppure visitare le città per categorie o addirittura spigolare a proprio piacimento saltando di palo in frasca. Un tradizionalista come me, incantato dall’originalità di Calvino, ha ovviamente seguito pedissequamente l’ordine narrativo impartito dall’autore. Ma non escludo, in futuro, una lettura più creativa ed egoriferita dell’opera.
L’impostazione culturale tra simbolismo, utopia ed esistenzialismo
Ne “Le città invisibili” ho ritrovato tutti i principali influssi culturali del novecento, sintetizzati in un’opera potentemente simbolica, plastica nell’architettura organica e fotografica nelle tappe.
La ricerca di Calvino riscopre le valenze oniriche illuminate dalla teoria psicanalitica: le città sono sogni perché “tutto l'immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra”.
Il sogno poi sconfina in una nuova proposta di utopia: destrutturata, discontinua, immaginifica, cavalcando una realtà che non è concreta, ma fluida, ideale, fantastica.
I temi del ricordo e del tempo evocano Proust in modo nuovo, mentre l’angoscia del disordine – che sia questa la matrice dell’ansia struttural-semiotica di Calvino? – fa rivivere l’esistenzialismo di Sartre nel fuoco dell’inferno reale. Con una proposta: vi sono due modi per affrontare “l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme” . “Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Come dire, delle due l’una: o conformarsi o ribellarsi…
Un romanzo che fornisce sempre nuovi spunti
Come quello che anima "Invisible cities", rappresentazione ispirata alle città invisibili di Italo Calvino. Se queste sono "luoghi della mente", per riprodurre in modo nuovo la pièce di Christopher Cerrone il regista Yuval Sharon ha scelto la Union Station di Los Angeles. Un'orchestra, otto cantanti e sette ballerini, coreografati da Danielle Agami, sono collegati da un sistema di microfoni e auricolari senza fili. Gli stessi strumenti vengono forniti a duecento passanti, che decidono liberamente quale delle parti dell'opera vogliono ascoltare e se rapportarsi con gli interpreti… (notizia liberamente tratta da “Repubblica on line”).
Bruno Elpis