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Danzare con la morte
“Ti propongo una scommessa (lo dice sofferente, dalla sua scomoda posizione): tu verrai ogni Natale, e se ti farò vivere ancora, mi lascerai vivere fino al Natale successivo…”
Ne “L’ultimo ballo di Charlot”, opera finalista al premio Campiello 2013, Fabio Stassi alterna gli “Interno notte” del 24 dicembre 1971, 1972 … 1977 a capitoli intitolati “Primo rullo”, “Secondo rullo”…
Negli “Interno notte” si riportano i metafisici colloqui tra Charlot e La morte (“Non devi farmi ballare, Charlot, devi farmi ridere…”) e le circostanze grazie alle quali l’uomo per ben sei volte procrastina l’appuntamento estremo.
Nei “Rulli” Charlot scrive un’immaginaria lettera a Christopher, il più piccolo dei suoi figli, che nel 1971 ha soltanto nove anni e rappresenta la ragione principale per la quale Charlot chiede alla morte di ripresentarsi l’anno successivo.
Nella lettera, Charlot rievoca dettagli sconosciuti (secondo l’autore “inventati”) della sua vita e il passato circense (“Lì imparai le capriole, i salti mortali, a camminare sulle mani”) disseminato da personaggi come Frida la donna cannone, Marceline il mimo o il ventriloquo, sul quale aleggia la leggenda di Arlequin (“Quel tipo più nero della notte che pulisce la sabbia degli elefanti e toglie gli sgabelli dalla pista”): “la commovente storia del montambanco che inventò il cinematografo per amore” di “Eszter, la cavallerizza ungherese”, fuggita in America per cadere vittima di un terribile incidente durante un’esibizione.
Nella “compagnia di Fred Karno, la Fun Fantasy… solo uno era più bravo di me, anche se doveva farsi le ossa: un ragazzo magrolino dall’aria pasticciona, i capelli dritti e gli occhi perennemente sul punto di lacrimare. Allora usava ancora il suo nome: Arthur Stanley Jefferson, ma tutti l’avrebbero conosciuto come Stan Laurel”.
Proprio con il futuro “Stanlio”, Charlot intraprende un viaggio in America, ove i due si introducono clandestinamente. Poi le tappe si susseguono: New York, San Francisco, Los Angeles Chicago, sulle tracce dell’equilibrista a cavallo… talvolta tirando la monetina per decidere la tappa successiva.
Con le tappe del viaggio, le esperienze si infittiscono. A San Francisco diviene imbalsamatore (“Ho scuoiato parecchie carcasse, gli ho svuotato le vene, strappato budella e nervi, cucito bocche, maneggiato la formalina e ogni tipo di unguenti e resine”) presso il signor Archibald (“Mi esaltava la possibilità di sfidare la Morte fino in fondo”), lavora in una fabbrica di candele, è tuttofare in una palestra di boxe, diviene apprendista tipografo e conosce il mondo dei libri…
A Los Angeles con un espediente si procura un impiego come “scrittore di didascalie in un cinematografo”: è l’occasione per realizzare il suo primo cortometraggio (David Copperfield), anche se svolge il suo ruolo sulla scia dell’improvvisazione (“Andavo a braccio, sperando che quel mestiere fosse talmente nuovo che nessuno sapesse ancora in cosa consisteva”).
Ne seguono altri: “Quei cortometraggi duravano più o meno un quarto d’ora ciascuno. Ne finivamo anche tre alla settimana, ma nessuno uscì con il mio nome.”
Sino al successo: “Fu quel giorno che diventai Charlot, the Tramp, il vagabondo con la bombetta e il bastone di bambù…”
“L’ultimo ballo di Charlot” è un romanzo particolare, di nicchia, soffuso com’è della malinconia che campeggia nel mondo dello spettacolo e del circo, colorato dalla varietà di personaggi anomali e tragici, nostalgico nel ripercorrere il ventesimo secolo che saluta ai suoi albori due “invenzioni” rivoluzionarie: il cinematografo e l’aeromobile…
Bruno Elpis