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E per me chi lo accenderà?
George Stransom, il protagonista di questo racconto di Henry James, ha una tendenza un poco strana: coltiva con i suoi defunti un rapporto intenso (“A poco a poco egli aveva preso l’abitudine di soffermarsi sui suoi morti ad uno ad uno…”), di quotidiana frequentazione, al punto da ritenere opportuno realizzare in una chiesa “L’altare dei morti”, un luogo ove accendere ceri e mantenere con i trapassati (“Quelli che in cuor suo chiamava sempre gli Altri”) una comunione tanto misteriosa quanto vitale.
“La religione dei Morti. Quella sì assecondava le sue inclinazioni, appagava il suo animo, dava sbocco alla sua pietà.”
Sembra avere la medesima passione anche una donna, che George incontra nel luogo dedicato al culto. Solo che la donna indirizza il legame necro-simpatico non già verso una pluralità di morti, bensì verso uno soltanto (“Dunque i vostri Morti sono soltanto uno?”): il suo amante, Acton Hague, che – parlandone da vivo – è stato nemico di George e gli ha arrecato un grave torto.
Come superare questo dilemma e contemperare il desiderio di continuare a frequentare la donna (a quelle modalità funereo-sacrali, s’intende) con l’accettazione del suo sentimento per un nemico?
Saprà George sublimare il suo perdono, mantenendo un occhio fisso sull’obiettivo finale (“E aveva un grande progetto… un lascito… L’avrebbe incaricata di amministrarlo e… avrebbe potuto accendere un cero anche per lui”)?
Giudizio finale: ieratico, cimiteriale, ultraterreno.
Bruno Elpis
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