Il giorno del giudizio
Letteratura italiana
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IL PICCOLO MONDO ANTICO DI S. SATTA
IL GIORNO DEL GIUDIZIO
di SALVATORE SATTA
pubbl. postumo nel 1977
INTRODUZIONE. S. Satta (1902-1975), “uno dei più grandi giuristi italiani”, come si legge in wikipedia, scrisse moltissime opere di procedura civile, ma evidentemente la sua sensibilità non si esauriva nelle opere di natura giuridica e trovava invece posto nelle pagine tra l’autobiografico e lo storico scoperte dopo la sua morte, tra cui quelle pubblicate col titolo “Il giorno del giudizio”.
CONTENUTO. Premesso che alla Parte prima segue un’ unica pagina della Parte seconda, l’autore racconta alla prima persona, entrando apertamente nella narrazione, la storia della famiglia del notaio di Nuoro Sebastiano Sanna Carboni e di sua moglie Donna Vincenza fino alla maggiore età del figlio minore nel primo dopoguerra, in nulla uniti se non dal vincolo matrimoniale e dal desiderio di assicurare un futuro ai loro sette figli, e cioè una laurea e beni al sole: terra, fondamentalmente. Con la loro storia si intreccia quella di tutto un mondo - la Sardegna della giovinezza dell’autore presumibilmente, “la selvaggia Barbagia” - che va scomparendo (e che nel 1973 era già soprattutto un fantasma del passato) non solo per la morte di coloro che in questo mondo vivevano e che lui rievoca con profonda comprensione e affetto, ma anche per i cambiamenti fatalmente portati dal tempo, presentati come contaminazioni che vengono dal “continente” e dall’amministrazione statale. Attraverso la narrazione delle vicende di singoli pastori, contadini, maestri, preti, avvocati nullafacenti e altri più o meno poveri rappresentanti di questo mondo, ma anche attraverso pagine bellissime dedicate al “mistero del vino” o alla cottura del pane, Satta fa rivivere una società ormai tutta seppellita nel cimitero di Nuoro dove l’io narrante (e tutto fa pensare che sia Satta stesso) si reca, tornato dal “continente”. Come si vede, si tratta soprattutto di un grande mosaico composto di tanti tasselli.
IL TITOLO. A p. 103, a conclusione del cap. VII, si legge: “Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco, sfilano in teorie interminabili (…) gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita (…) E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”. Noto che ha scritto “paradiso” e suppongo perciò che tutti questi uomini e donne che furono vennero da Dio giudicati innocenti, per cui non riesco a spiegarmi l’idea del “fardello” e del “ridicolo dio” che dovrebbe “liberarli”. Un’idea simile, ma più comprensibile - mi sembra - si trova anche alla fine della prima e unica pagina della Parte seconda: “Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”. Perchè Satta abbia poi continuato dicendo quanto segue, non lo so: “È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio”. Forse è qualcosa che si collega a questo passaggio: “Sono venuto qui [nel cimitero di Nuoro], tra un piroscafo e l’altro, per vedere se riesco a mettere un po’ d’ordine nella mia vita, a riunire i due monconi, a ristabilire il colloquio senza il quale queste pagine non possono continuare, ed eccomi vagare (…) in balia di vani ricordi” (p. 97-98). Chissà!
OPINIONE. Questo libro, nella forma in cui è stato pubblicato, cioè senza la prevista Parte seconda, è il più ottocentesco fra i libri del ‘900 che ho letto, non tanto perché racconta un mondo rurale ancora fortemente ancorato a usi e valori ormai antichi e non sostanzialmente diverso da quello narrato dalla Deledda (1871-1936), quanto per la visione nostalgica - nostalgica, benchè non propriamente idealizzante - con cui questo mondo viene rappresentato, una visione che si stenta a immaginare contemporanea di una cultura europea in cui già nel 1902 ha potuto vedere la luce per esempio “L’immoralista” di Gide, una visione peraltro non molto lontana, in fondo, da quella di un maestro della generazione precedente: Verga (1840-1922), anch’egli diffidente e pessimista nei confronti della modernità e dello Stato. Anche la lingua, molto colta e spesso impregnata di poesia mi sembra più vicina a quella di Carducci (1835-1907) o di Pascoli (1855-1912) che a quella di Pirandello (1867-1936), e talora presenta delle oscurità che forse sarebbero state corrette se l’autore avesse potuto ancora lavorare a quest’opera, ciò non toglie che ci sono molte bellissime pagine e che i ritratti sono spesso vividi. Concludendo, alla domanda che a p. 158 l’io narrante si pone: “È possibile che io perda il tempo (e sia pure questi miei tardi anni) a dare realtà a persone che realtà non hanno mai avuta neè potevano avere, che non possono interessare nessuno, perché la loro esistenza si riduce a un atto di nascita e un atto di morte?”, la risposta sicuramente è no, non è stata una perdita di tempo.
P.S. Ho colto in non poche pagine una certa affinità con la scrittura di Sebastiano Vassalli, che secondo me aveva letto quest’opera con fervore: non a caso anche nel Giorno del giudizio la parola “sogno” ricorre con una certa frequenza e soprattutto accomuna i due scrittori il sentimento del tempo, di Chronos che divora i suoi figli, e dello sguardo di un dio o di dei che guardano dall’alto verso il palcoscenico delle vicende umane. Cito questo passaggio: “Ma può darsi che la vita di un paese si svolga in un’unità di tempo e di luogo, come le antiche tragedie, e la successione degli eventi abbia la misteriosa fissità del cimitero. Vista da Dio, nel giorno del giudizio, credo che la vita appaia veramente così.” (p. 198)
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Capolavoro!
“[…] i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi.”
È la storia dei Sanna, dei Mannu e dei tanti “don” che, a torto o a ragione, vivono circondati da un alone di nobile prestigio, ma anche di modesti preti e maestri di scuola, di contadini e pastori e di tutti quei disgraziati che stanno al mondo soltanto perché c’è posto.
È la storia di solitudini e infelicità sepolte, alla pari di molte donne, dietro imposte perennemente chiuse; la storia di miserie, non esclusivamente materiali, e ricchezze centellinate e agognate, anche se, come dice qualcuno, ricco è solo il cimitero; di certezze del passato e illusioni del futuro che, sfiorandosi, incombono entrambe su un presente in bilico precario tra padri e figli.
Sullo sfondo la Nuoro del primo Novecento, nient’altro che “un nido di corvi, […] come e più della Gallia, divisa in tre parti”, la quale, talvolta con stupore (come per l’avvento della luce elettrica), talaltra con orrore (come in occasione dello scoppio improvviso della Grande guerra che famelica reclama al fronte giovane carne da macello), scopre a poco a poco di essere parte di un mondo più grande che va ben oltre le strade polverose e diffidenti che corrono tra il Corso e i borghi di Sèuna e San Pietro.
Un affresco monumentale, altro aggettivo mi par poca cosa, di una città, di un’epoca e di una umanità travagliata, evocata affinché si liberi del proprio fardello di memorie in un pietoso ed eterno giorno del giudizio.
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Nuoro
Nuoro, fine ottocento-inizio millenovecento. La famiglia di stampo patriarcale Sanna Carboni è composta da Don Sebastiano, notaio del paese nonché uomo dalle salde tradizioni e dalla mentalità rigida del tempo, e da Donna Vincenza, figlia di Monsù Vugliè ed originaria di quel pezzo di Sardegna che fu il regno Sabaudo da cui giunse con quel piccolo appezzamento di terra destinato all’uso di orto. Dall’unione della coppia ben nove figli vengono al mondo, ciascuno dei quali vien fatto studiare dal padre nonostante i costi, i sacrifici. Al fianco dei protagonisti principali, spiccano un’altra serie di personaggi, quali il fattore ziu Poddanzu, il maestro Manca o ancora Giggia, la prostituta del paese, che hanno il compito di rimarcare come la posizione di appartenenza sia immodificabile e irrinunciabile. Da questa non vi è possibilità di riscatto alcuno. Essa può, come nel caso di Pietro Catte, soltanto peggiorare, condurre a seguito di una serie di sprovvedute azioni, alla perdizione, ad una sorte avversa. Ed è questo nucleo familiare, insieme a tutti gli altri individui che popolano il paese, che costituisce il pilastro grazie al quale si snoda l’opera ideata da Salvatore Satta; il fulcro con cui lo stesso ricostruisce il volto di una realtà dimenticata.
E come gli individui hanno il loro posto, il loro posto lo hanno anche le cose, le istituzioni, la legge, la Chiesa, Dio. Questi sono dogmi fondamentali, a cui è impossibile sottrarsi, a cui è peccato sottrarsi. Il destino è ineludibile, consacrato, immutabile. Non vi è spazio per le speranze, per le alternative, per le possibilità; ciascun protagonista è accompagnato da un’unica insostituibile amica: la solitudine.
Nello scorrere le pagine de “Il giorno del giudizio” la prima sensazione che viene percepita è proprio questo senso di isolamento, lontananza, abbandono da chi abbiamo accanto, dentro e fuori dalle mura domestiche, prima sensazione a cui seguono molteplici di naturali domande.
Composto da un susseguirsi di episodi che si alternano in uno scandire di vicende e vicissitudini, il testo arriva con forza al lettore che diviene parte integrante della riflessione, di quel puzzle atto a ricostruire un contesto sociale. E seppur manchi una vera e propria trama, un vero e proprio filo conduttore in quanto lo stesso ripercorre quelli che sono i ricordi dell’autore, i flussi correnti che alla mente tornano da piccoli gesti o oggetti incrociati quasi per caso, ciò accade con forza inesauribile.
Caratterizzato da uno stile forbito, ricco, acuto e meticoloso, l’elaborato raggiunge il suo obiettivo destinandosi a chi legge con tutta la sua più semplice verità. A tratti la lettura può risultare difficoltosa a causa dell’assenza di predetta unica linea guida, ma nel complesso, “Il giorno del giudizio” è un testo che rappresenta la massima espressione del panorama letterario italiano, un’opera che offre una perfetta disanima dell’animo umano, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue contraddizioni e i suoi limiti.
«Il fatto è che il pastore non ha nulla a che fare con il contadino. Il pastore appartiene alla dinamica della vita, il contadino alla statica. La differenza tra il pastore e il contadino è che quello conduce una casa che cammina, questo una casa che sta ferma. Se per l’uno la terra sulla quale vendemmia ed ara è il fine, per l’altro è solo lo strumento; se il contadino dopo che ha zappato e potato le viti e gli ulivi, siede ai piedi di un albero e mangia il pane intinto nell’olio, si riposa; il pastore quando siede anche lui nella grande calura meridiana non riposa, perché la sua intera vita è senza riposo. Guarda le pecore che meriggiano, ma sa che a un certo punto queste si muoveranno col loro lento dondolio, e nessuno le potrà fermare e andranno, ed egli le dovrà seguire, aiutato soltanto dai cani, che ha avvezzato alla guerra. [..] La proprietà pastorale non ha nulla a che fare con la proprietà contadina. Questa, intanto, è raccolta in certe valli e in certe pianure, è divisa in tanti appezzamenti di terra, e non ce n’è uno che assomigli all’altro. Bisogna chiedere il permesso, quando si entra, anche per attraversarli. L’altra è dappertutto, è certamente divisa e accatastata, ma la legge è legge, il fatto è fatto, e nessuna legge può impedire al pastore di considerare la sua proprietà in tutto quello che l’occhio può abbracciare. E non solo la terra, ma le greggi, che in tanto sono tue in quanto sei in grado di difenderle. Dio è col contadino, non è col pastore» p. 32-33
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Dies irae
Sono tanti gli scrittori italiani che, attraverso la storia di un nucleo familiare, hanno raccontato un luogo ed un'epoca (spesso luoghi dimenticati ed epoche sepolte).
Salvatore Satta lo fa attraverso la famiglia Sanna Carboni... “la famiglia, questo mistero in cui la nostra persona si moltiplica, non vince, ma accresce la solitudine.”
Don Sebastiano è il notaio di Nuoro. Donna Vincenza è figlia di Monsù Vuglié, che arrivò nel nuorese da quel pezzo di Sardegna che fu il regno sabaudo. Insieme, tra la fine di un secolo (l'800) e l'inizio di quello successivo hanno costruito nel silenzio e nel lavoro una famiglia di ben nove persone.
Una famiglia di stampo patriarcale, rimarcato da quel “stai al mondo soltanto perché c'è posto” che sovente don Sebastiano rivolge alla moglie, nonostante ben sappia che l'esistenza conserva un ruolo per ciascuno.
Proprio come accade in paese, dove hanno il proprio posto il fedele fattore ziu Poddanzu, il maestro Manca, straordinariamente dotato ma fin troppo amante del vino, e persino Giggia, “puttana senza malizia”; e il proprio posto, quando lo si perde – come Pietro Catte, troppo sprovveduto per gestire l'eredità ricevuta –, si fa una brutta fine.
Il loro posto hanno le persone, il loro posto hanno le cose e le istituzioni, come la legge, la Chiesa, la carità di Dio, i patti tra gli uomini, in tempi in cui la parola ha la stessa forza della carta...
Nel 1979 – quattro anni dopo la morte del suo autore, eminente giurista di origine sarda e scrittore solo per passione – “Il giorno del giudizio” è svelato al mondo letterario. Opera destinata ad essere tradotta in numerose lingue e da alcuni ritenuto un capolavoro della letteratura non solo italiana (in questo senso la figura di Salvatore Satta ricorda quella di un altro celebre isolano, stavolta siciliano: quel Giuseppe Tomasi di Lampedusa che ha conquistato l'immortalità letteraria con una sola opera).
A “Il giorno del giudizio” aderisce perfettamente quella definizione di “romanzo corale”, di “affresco”, che vuole indicare opere di speciale respiro, in grado di fermare nella memoria collettiva un luogo ed un'epoca.
Qui, come detto, è la Nuoro di inizio '900, i rapporti umani che la animano e i rapporti dell'umanità narrata con alcuni eventi del periodo storico. Un racconto che diventa, poco a poco, quello di un'intera regione e del suo isolamento, ad un tempo cercato e subìto.
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"Sento che la pace dei morti non esiste"
Salvatore Satta ci accompagna in Sardegna, nella Nuoro della sua giovinezza, a cavallo tra ottocento e novecento. Questa città – descritta come un autentico luogo dell’anima – si presenta a ben vedere come tante altre, coi suoi maestri, dottori, preti, avvocati, contadini, pastori, mercanti, muratori, i quali, al di là delle profonde divisioni sociali, hanno tutti in comune lo stesso problema, “quello di vivere, di comporre col [loro] essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere”.
Giunto ormai alla vecchiaia, dopo aver abbandonato la Sardegna per il “continente” ed aver girato l’Italia per anni, l’autore torna alla sua Nuoro per un giorno e decide di visitare il cimitero: si tratta di un’esperienza intensa e rievocativa, perché ogni tomba possiede un nome capace di parlargli e di riportargli alla mente i ricordi della sua infanzia. Ed è così che immagina di restituire voce alle tante anime dimenticate che un tempo avevano popolato il Corso, il caffè Tettamanzi, il quartiere contadino di Seuna, il villaggio dei pastori di San Pietro e tanti altri luoghi, i quali, col passare dei decenni, sono stati quasi del tutto svuotati della propria essenza.
“Sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi”
Ecco che scrivere della loro vita, raccontarla a coloro che non ne sono stati testimoni, significa prendere nelle mani un fardello, quello della memoria di chi è stato ed ora non è più, sperando che questo possa in qualche modo servire. I morti di Nuoro infatti hanno bisogno di qualcuno che li liberi dal loro tormento, lo stesso che ha segnato l’inutilità e l’inesorabile lentezza della loro vita, trascorsa dalla culla alla tomba nello stesso paese, secondo un ordine e dei ritmi così consolidati da apparire l’espressione di una legge divina, al punto che quasi nessuno si è mai azzardato a metterli in discussione, e quei pochi illusi che ci hanno provato hanno assaggiato loro malgrado il sapore amaro del fallimento.
L’ineluttabilità del destino torna ciclicamente nei vari episodi che scandiscono il romanzo, il quale però è soprattutto un libro sulla solitudine, quel male profondo e inguaribile che sembra affliggere tutti i personaggi che appaiono dall’inizio alla fine della narrazione, a partire dalla figura spenta e senza speranza di Donna Vincenza, madre di sette figli e moglie dell’austero e rispettabile notaio del paese, Don Sebastiano. Il giorno del giudizio è anche il sapiente racconto della loro famiglia, o meglio, di quella dell’autore, il quale trae spunto dalle vicende della propria casa per inserirle in un contesto cittadino dove a regnare sono la ripetitività dei gesti e l’insondabile significato dell’esistenza (ammesso che ve ne sia uno).
La narrazione manca di una vera trama, poiché segue il flusso dei ricordi dell’autore. Questo rende la lettura frammentata e a tratti difficile, ma è forse l’unico difetto di un libro che sa descrivere gli eventi della vita con poesia e disincanto al tempo stesso.
Dato alle stampe quattro anni dopo la morte del suo autore, Il giorno del giudizio è stata una vera e propria sorpresa editoriale: scritto da un affermato giurista di cui fino a prima erano stati pubblicati solo testi di diritto, è riuscito in breve tempo a raggiungere un notevole successo, al punto da essere salutato da molti come uno dei principali romanzi italiani degli ultimi decenni.
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L’INELUTTABILITÀ DEL DESTINO
Pubblicato postumo nel 1977 e scritto da un giurista che per un’intera esistenza coltivò gli studi letterari, l’opera può ascriversi alla condizione giuridica di lascito testamentario non come atto privato ma pubblico. La pubblicazione ha reso nota la grandezza di uno scrittore che in vita fu restio, accantonato il tentativo letterario con “La veranda”, a darsi un posto nel mondo delle lettere. Lo stesso Satta, celato sotto le spoglie del narratore, scrive e si augura che un momento di lucidità, prima della morte gli impedisca di mantenere vive e pubblicabili le sue parole facendolo così assurgere a certa immortalità.
E invece il romanzo esce ed esce postumo e ci dona il valore di un’esistenza persa dentro altre 7000, quali gli abitanti di Nuoro agli inizi del Novecento, qui rappresentati.
La voce narrante è lui, un giudice in pensione: si cela tra una miriade di personaggi che fa affiorare dalla sua memoria di vita per dar vita ad un romanzo corale dove unico protagonista è il giudice - metafora della solitudine umana - e unico oggetto il giudizio. Il narratore alterna la sua visone esterna all’ottica interna e presentandoci Don Sebastiano, notaio, e la sua famiglia, una moglie e sette figli, ci cala in un mondo che dal particolare assurge all’universale. E mentre il narratore cerca “di fermare onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, si conosce Nuoro, la sua storia, le sue famiglie, l’importanza della vigna, l’atto della panificazione, il “fiat lux” dell’avvento dell’illuminazione pubblica, il progredire del tempo, dei tempi, degli uomini, dei costumi. E la terra inghiotte gli uomini e le discendenze si succedono e le storie individuali si disperdono in una storia universale e vita e morte si confondono.
Il narratore allora, fatti riaffiorare uomini e ricordi, imborghesito e al limitare della sua esistenza, dal cimitero, ove come in sogno si è recato speranzoso di non essere veduto assurge a “ridicolo dio” e chiama a sé i morti come nel “giorno del giudizio”. Scrivendone la storia si sente non tanto demiurgo quanto giudice e prosegue nel far affiorare uomini e ricordi: i maestri, la scuola, l’episcopio, i monsignori... Diventa quindi giudice di se stesso, gli altri lasciandoli all’oblio della storia e della vita, quando il ricordo soggiunge pungente e diventa anche la richiesta di perdono di un figlio che un giorno rifiutò l’atto d’amore della mamma sì da crucciarsene tutta la vita.
L’ottica straniante attinta dal modulo verista completa l’effetto di smarrimento lasciato al lettore che, scoprendo un piccolo fazzoletto di terra abitata da qualche anima, ritrova la peculiarità di una singola esistenza liquefatta nella moltitudine delle altre.
Un libro sulla morte, un libro sulla vita, una riflessione amara sulla condizione umana che a tratti mi ha ricordato Saramago, un libro sulla solitudine della condizione esistenziale, un libro sulla ineluttabilità del destino che forse alla fine assolve Dio dopo averlo a lungo chiamato in causa e a giudizio.